Un virus di nome suocera
MACCHÉ SMEMORATOL’uomo scappato di casa
Pensate
quanto può il potere di una suocera. Un tapino – Turi Mannino, ovvero Salvatore – si ritrova a non essere più padre, né marito e nemmanco partecipe della propria azienda. E figurarsi padrone della propria casa quando – abitando sotto lo stesso tetto, a La- jatico, nel Pisano – fa della signora sua suocera, la professoressa Sandra, sua socia in affari, la sua agognata ossessione.
“Mi toglie i figli, la moglie, il lavoro…”. Ed è il giusto pretesto per darsi alla macchia. Uno stantuffo, più che un recriminare: “Mi toglie i figli, la moglie, il lavoro…”.
Asottofondo
della fuga che dalla stazione di Pontedera fino a Milano, poi Parigi e Londra porta ai binari di Edimburgo. E sempre in treno, sferragliando il suo mantra – “mi toglie i figli, la moglie, il lavoro…” – per farsi ritrovare sul pavimento della cattedrale di St. Genis, soccorso dai medici scozzesi ai quali, senza una sola parola d’italiano e con qualche accenno di lingua inglese, si offre quale caso clinico.
“Chi sei?”, gli domandano quelli. E lui, furbo – o sventurato, secondo il copione – risponde: “Come tu mi vuoi…”. E così – come nel canone di Luigi Pirandello, Come tu mi vuoi, dal dramma ispirato allo Smemorato di Collegno – il Mannino corre incontro alla salvezza: un’amnesia. È la salvifica tabula rasa dove da zero, sparpagliando parte di sé – tra finzione, pazzia e verità – si diventa tutto. O niente.
Pensate quanto può il groviglio delle tre corde chiamate a far mulinello nella nostra testa: sempre seri, costantemente civili, squisitamente pazzi. E quest’ultima corda – quella della pazzia – s’avvita come un chiodo fisso nell’ansia di Mannino.
Evirato nel ruolo di padre, di marito e d’imprenditore. Evirato da una sola erinni, l’incolpevole signora Sandra: “Mi toglie i figli, la moglie, il lavoro…”.
È SUFFICIENTE convincersi di essere ciò che si sceglie di impersonare. Perdere la memoria equivale a scomparire, a far perdere la tracce di sé come fanno i bambini quando chiudono gli occhi e pensano di essersi nascosti al mondo. Come non sanno fare le ragazze nei drammi di Ibsen e come riesce, invece, ai geni come Ettore Majorana – il caso mai risolto dello scienziato sparito chissà dove nella primavera del 1938 – mai più comparso e forse, chissà, accolto nella Certosa di Serra di San Bruno, in Calabria, come pensava Leonardo Sciascia, oppure riuscito a farsi una vita nuova nei panni di un senza tetto: Tommaso Lipari, conosciuto come l’Uomo cane. E altri non poteva essere Lipari che lui, Majorana.
Si aggirava nei pressi delle scuole di Mazara del Vallo per soccorrere gli scolari cui impartiva lezioni di fisica e correggeva i loro esercizi, spesso bacchettandoli col suo bastone da passeggio con sopra inciso 5 agosto 1906, la data di nascita dell’illustre fisico.
Ma chissà, poi: ci si crede felici, spesso sani, talvolta
L’obiettivo Ci si finge malati per farsi volere bene e per farsi amare finalmente e tantissimo
cretini quando il gioco vale la candela e si finge – sempre, quando non si vuol ricordare – per non voler vedere la realtà tutta di dolori e di frustrazioni. Ci si finge malati per farsi volere bene e per farsi amare finalmente e tantissimo – più del dovuto – e voleva assecondare una sua follia allora, Mannino.
Rosso di capelli e chissà quanto sicilianissimo di sangue, Turi – il diminutivo gli si confà – rinuncia subito alla fatica d’immedesimarsi nella maschera da lui scelta. Confessa tutto, Turi – si scusa con tutti, si rammarica del disturbo dato – per ritrovarsi adesso, ricoverato al reparto di psichiatria dell’Ospedale Santa Chiara di Pisa come il Fu Turi Mammino, lo smemorato di Scozia.
Tale e quale – il canone si ripete – un Fu Mattia Pascal.