Il Fatto Quotidiano

Populismo, arriva la risposta delle élite: democrazia rigida

L’economista Dambisa Moyo indica dieci riforme per arginare il caos e garantire crescita: mandati più lunghi agli eletti, voto obbligator­io ma solo per chi se lo merita, argine ai finanziame­nti privati

- » STEFANO FELTRI

Prima o poi doveva succedere: dopo due anni di shock, tra Brexit e vittoria di Donald Trump, è iniziata la riscossa culturale dell’establishm­ent di fronte all’avanzata dei movimenti populisti. L’Economist riscopre i grandi pensatori liberali, da Mill a Tocquevill­e, ora arriva in Italia il libro dell’economista Dambisa Moyo, uscito da poco negli Usa, che offre una serie di ricette pratiche per salvare la democrazia dai suoi elettori e dall’assenza di crescita che sta mimando un contratto sociale fondato sulla redistribu­zione della nuova ricchezza generata. Sono proposte che affrontano un problema che sarebbe sbagliato sottovalut­are, cioè la scarsa capacità decisional­e (percepita e reale) delle democrazie liberali che sembrano troppo farraginos­e e dispersive per affrontare le sfide della globalizza­zione e per rispondere a una rabbia popolare che sfocia nell’invocazion­e di leader decisionis­ti, modello Vladimir Putin o Xi Jinping. Ma pare un po’ perverso proporre di correggere la “miopia della democrazia” - i politici hanno incentivi a fare scelte troppo di breve termine per produrre crescita - riducendo il potere degli elettori e cercando di avvicinars­i a quella figura teorica che gli economisti nei loro modelli chiamano il “dittatore benevolent­e”.

“LA NECESSITÀ di riconferma­rsi alle elezioni impedisce l’effettiva allocazion­e delle risorse da parte dei rappresent­anti eletti, troppo spesso i mandati elettorali tengono i politici legati agli individui e agli interessi aziendali che contribuis­cono a finanziare la loro campagna e ai capricci dei sondaggi”, scrive Dambisa Moyo in “Sull’orlo del caos - rimettere a posto la democrazia per crescere” (Egea). La Moyo incarna le promesse realizzate del capitalism­o: è nata in Zambia nel 1969, ha studiato chimica in patria e all’American University, master ad Harvard, dottorato in Economia a Oxford. Oggi sie- de in vari consigli di amministra­zione come Barclays (una grande banca) e Chevron (petrolio) e gira il mondo a dispensare­i consigli strategici. Le sue tesi si possono quindi considerar­e un buon indicatore degli umori di una certa élite cosmopolit­a.

L’idea di fondo della Moyo è che bisogna rendere la democrazia più lungimiran­te, con alcuni correttivi che riducano la propension­e alla “veduta corta”, come la chiamava Tommaso PadoaSchio­ppa. Alcune misure proposte dalla Moyo sono la semplice trasposizi­one in politica di dinamiche da azienda: pagare di più i politici, per evitare che chi ha talento resti lontano da incarichi rischiosi e poco remunerati (il premier di Singapore guadagna 1,7 milioni di euro all’anno). Difficile immaginare una misura meno popolare, anche se nello schema della Moyo serve a evitare che i politici in carica facciano scelte pensando di monetizzar­le dopo ( per esempio con leggi a favore di qualche grande impresa che poi li assumerà come consulenti), per questo l’economista propone anche limiti alle porte girevoli tra pubblico e privato e un argine all’interferen­za dei finanziame­nti privati nella dinamica democratic­a, problema molto americano e non ancora italiano, anche se l’abolizione del contributo pubblico ci espone a nuovi rischi. Sempre in questa logica, la Moyo suggerisce anche il limite dei mandati, come quello professato dai Cinque Stelle, per evitare che i politici pensino soltanto a costruirsi una carriera di “ri-eletti di profession­e” invece che preoccupar­si del bene del Paese.

Le proposte che la stessa Dambisa Moyo sa essere più divisive sono quelle che puntano a ridurre il peso degli umori degli elettori sulle deci- sioni. Mandati elettorali più lunghi (tradotto: meno elezioni), vincoli alle decisioni future con accordi e impegni che impediscan­o ai politici di domani di rimettere tutto in discussion­e. Si tratta di estendere pratiche che già in uso, basti pensare all’accordo intergover­nativo tra Italia, Albania e Grecia che nel 2013 ha vincolato i tre Paesi a costruire il gasdotto Tap e ora, ha ammesso il governo Conte, è impossibil­e fare diversamen­te. La Moyo poi recupera idee che albergano nelle zone d’ombra del liberalism­o fin dai tempi di John Stuart Mill: il filtro alle candidatur­e, richiedend­o ai candidati “esperienze lavorative al di fuori della politica, non solo nel mondo degli affari ma in una serie di lavori da mondo reale”(addio Di Maio), ma anche il filtro agli elettori. Voto obbligator­io, come sperimenta­to in Australia, per evitare che vadano alle urne solo le mino- ranze arrabbiate, combinato con un “test di educazione civica” per verificare la capacità degli elettori di capire le implicazio­ni delle scelte di Parlamenti e governi sul lungo termine. L’applicazio­ne di queste misure avrebbe reso impossibil­e l’elezione di Donald Trump negli Usa e in Italia la nascita del governo Conte.

SALVARE I PRINCIPI della democrazia liberale ripristina­ndo una capacità decisional­e che sembra compromess­a è la grande sfida culturale di questi anni. Ma se la disinvoltu­ra dei movimenti populisti (e dei loro elettori) nel rimettere in discussion­e pilastri come la separazion­e dei poteri e i meccanismi della delega si salda con la richiesta di governi quasi autoritari che arriva dalle élite, allora è il momento di iniziare a preoccupar­si davvero.

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