Fiducia, cambia il governo ma non il vizio
Ecome era abbastanza prevedibile fiducia fu. Siccome, durante tutta la scorsa legislatura, abbiamo sottolineato quanto fossero sbagliati, e costituzionalmente poco igienici, i continui ricorsi alla fiducia e alla decretazione d’urgenza, riteniamo di farlo anche in questa. Il primo “incidente sulla fiducia” è capitato cento giorni dopo l’insediamento dell’esecutivo Conte, a metà settembre sul decreto Milleproroghe. Oggi come allora le opposizioni, hanno deciso di fare polemica su una questione formale: cioè sulla data del Consiglio dei ministri che avrebbe autorizzato la fiducia. Una polemica che gli elettori del Pd certamente capiranno, la tipica battaglia che galvanizza gli animi. Chi non si sta domandando, non senza apprensione, “Ohibò, chissà quando il Cdm ha autorizzato la fiducia?”. Gatta ci cova? Ma pensandoci bene: abbiamo mai saputo quando, nei tre governi della precedente legislatura (in cui la questione di fiducia è stata posto 108 volte, così ripartite: 66 dall’esecutivo Renzi, 32 dal governo Gentiloni, 10 da Letta) il Cdm autorizzava? Tornando a questioni più serie, le obiezioni vere (che il Pd, dati i numeri di cui sopra, non può porre) sono altre. La fiducia che stamattina voterà il Senato capita su un provvedimento – il decreto Sicurezza – che è certamente più “qualificante dell’azione di governo” rispetto al decreto Milleproroghe. Ma per la delicatezza della materia che tratta e delle misure che contiene dovrebbe essere oggetto di un dibattito parlamentare il più ampio possibile. Hanno ragione i professori di Libertà e Giustizia (un tempo, “professoroni”, “soloni” etc.) quando denunciano la mancanza dei requisiti di necessità e urgenza nel decreto. Abbiamo ancora nelle orecchie le accuse dei parlamentari del Movimento 5 Stelle che sottolineavano come tra questioni di fiducia, super canguri, ghigliottine e artifizi regolamentari di ogni tipo, lo scopo fosse sempre quello di strozzare il dibattito alle Camere.
DUE GIORNI FA, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Stefano Buffagni (M5S) ha evocato le dimissioni per l’onorevole De Falco, in caso di voto in dissenso. E qui, anche se la battuta è fin troppo facile, il tema non è se il capitano tornerà a bordo, quanto piuttosto capire se, in balia di una sindrome di accerchiamento, i Cinque Stelle si stiano dimenticando le regole fondamentali di una democrazia parlamentare. Che è piena, appositamente!, di intralci per chi governa. Abbiamo combattuto per anni l’abuso della “governabilità” come parola d’ordine degli esecutivi che volevano decidere e comandare senza essere disturbati. Questo disturbo è però il sale della democrazia. È in nome della centralità del Parlamento e dei contrappesi istituzionali, che si è fatta la battaglia referendaria contro una riforma costituzionale che tendeva a una democrazia “decidente”, “esecutiva”. Da ultimo: la smania securitaria non è affatto un’emergenza del Paese (basta guardare i dati sulla criminalità), non c’è alcuna ragione per ricorrere alla decretazione d’urgenza e nemmeno alla fiducia. Il problema è rivendicare risultati hic et nunc, in un clima fastidioso e pernicioso di perenne campagna elettorale. Una discussione parlamentare avrebbe contribuito a migliorare un testo che, secondo l’Ispi, per esempio farà addirittura aumentare i clandestini (ai 490 mila irregolari già presenti in Italia, se ne aggiungeranno 72 mila per l’arretrato delle commissioni che analizzano le richieste di asilo; altri 32.750 per il mancato rinnovo della protezione umanitaria e 27.300 per la mancata concessione. Il totale fa 622 mila, oltre il 20% in più in un colpo solo). Invece è sempre la solita storia, cambiano i governi ma non il vizio assurdo del “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”.