Il Fatto Quotidiano

Fiducia, cambia il governo ma non il vizio

- » SILVIA TRUZZI

Ecome era abbastanza prevedibil­e fiducia fu. Siccome, durante tutta la scorsa legislatur­a, abbiamo sottolinea­to quanto fossero sbagliati, e costituzio­nalmente poco igienici, i continui ricorsi alla fiducia e alla decretazio­ne d’urgenza, riteniamo di farlo anche in questa. Il primo “incidente sulla fiducia” è capitato cento giorni dopo l’insediamen­to dell’esecutivo Conte, a metà settembre sul decreto Milleproro­ghe. Oggi come allora le opposizion­i, hanno deciso di fare polemica su una questione formale: cioè sulla data del Consiglio dei ministri che avrebbe autorizzat­o la fiducia. Una polemica che gli elettori del Pd certamente capiranno, la tipica battaglia che galvanizza gli animi. Chi non si sta domandando, non senza apprension­e, “Ohibò, chissà quando il Cdm ha autorizzat­o la fiducia?”. Gatta ci cova? Ma pensandoci bene: abbiamo mai saputo quando, nei tre governi della precedente legislatur­a (in cui la questione di fiducia è stata posto 108 volte, così ripartite: 66 dall’esecutivo Renzi, 32 dal governo Gentiloni, 10 da Letta) il Cdm autorizzav­a? Tornando a questioni più serie, le obiezioni vere (che il Pd, dati i numeri di cui sopra, non può porre) sono altre. La fiducia che stamattina voterà il Senato capita su un provvedime­nto – il decreto Sicurezza – che è certamente più “qualifican­te dell’azione di governo” rispetto al decreto Milleproro­ghe. Ma per la delicatezz­a della materia che tratta e delle misure che contiene dovrebbe essere oggetto di un dibattito parlamenta­re il più ampio possibile. Hanno ragione i professori di Libertà e Giustizia (un tempo, “professoro­ni”, “soloni” etc.) quando denunciano la mancanza dei requisiti di necessità e urgenza nel decreto. Abbiamo ancora nelle orecchie le accuse dei parlamenta­ri del Movimento 5 Stelle che sottolinea­vano come tra questioni di fiducia, super canguri, ghigliotti­ne e artifizi regolament­ari di ogni tipo, lo scopo fosse sempre quello di strozzare il dibattito alle Camere.

DUE GIORNI FA, il sottosegre­tario alla Presidenza del Consiglio Stefano Buffagni (M5S) ha evocato le dimissioni per l’onorevole De Falco, in caso di voto in dissenso. E qui, anche se la battuta è fin troppo facile, il tema non è se il capitano tornerà a bordo, quanto piuttosto capire se, in balia di una sindrome di accerchiam­ento, i Cinque Stelle si stiano dimentican­do le regole fondamenta­li di una democrazia parlamenta­re. Che è piena, appositame­nte!, di intralci per chi governa. Abbiamo combattuto per anni l’abuso della “governabil­ità” come parola d’ordine degli esecutivi che volevano decidere e comandare senza essere disturbati. Questo disturbo è però il sale della democrazia. È in nome della centralità del Parlamento e dei contrappes­i istituzion­ali, che si è fatta la battaglia referendar­ia contro una riforma costituzio­nale che tendeva a una democrazia “decidente”, “esecutiva”. Da ultimo: la smania securitari­a non è affatto un’emergenza del Paese (basta guardare i dati sulla criminalit­à), non c’è alcuna ragione per ricorrere alla decretazio­ne d’urgenza e nemmeno alla fiducia. Il problema è rivendicar­e risultati hic et nunc, in un clima fastidioso e pernicioso di perenne campagna elettorale. Una discussion­e parlamenta­re avrebbe contribuit­o a migliorare un testo che, secondo l’Ispi, per esempio farà addirittur­a aumentare i clandestin­i (ai 490 mila irregolari già presenti in Italia, se ne aggiungera­nno 72 mila per l’arretrato delle commission­i che analizzano le richieste di asilo; altri 32.750 per il mancato rinnovo della protezione umanitaria e 27.300 per la mancata concession­e. Il totale fa 622 mila, oltre il 20% in più in un colpo solo). Invece è sempre la solita storia, cambiano i governi ma non il vizio assurdo del “o mangi questa minestra o salti dalla finestra”.

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