Il Fatto Quotidiano

Flat Tax per le partite Iva: è piccola ma pericolosa

Doveva semplifica­re le aliquote, invece crea disugualia­nze tra lavoro autonomo e chi ha la busta paga. E incentiva l’elusione fiscale

- » MARIA CECILIA GUERRA

La legge di Bilancio per il 2019 si propone di introdurre, come primo passo verso la flat tax promessa dal centrodest­ra in campagna elettorale, la flat tax per i lavoratori autonomi e gli imprendito­ri individual­i. Una scelta a favore del l’abbandono della progressiv­ità per una sola categoria di redditi di lavoro ben difficilme­nte giustifica­bile sotto il profilo dell’equ it à. Ma che neppure stimola l’attività produttiva, anzi la disincenti­va, mentre crea forti incentivi a proficue attività di elusione fiscale.

LA FLAT TAX per gli autonomi si articola in due regimi. 1) Per i contribuen­ti con ricavi e compensi non superiori ai 65 mila euro, a partire dal 2019, l’Irpef complessiv­a, nazionale e locale, sarà pari al 15% (5% per i primi 5 anni di attività). Viene presentata come estensione dell’at tu al e regime dei minimi. Una affermazio­ne falsa: il regime dei minimi, pure discutibil­mente esteso dal governo Renzi, era pensato per semplifica­re gli adempiment­i sia burocratic­i che fiscali richiesti a soggetti privi di una organizzaz­ione imprendito­riale, ed era quindi sottoposto a requisiti stringenti, non solo per quanto riguarda l’ammontare complessiv­o di ricavi e compensi, ma anche per la spesa per il personale e i beni strumental­i utilizzati. Questi requisiti vengono ora eliminati. A coloro che ricadono nel nuovo regime viene confermata la determinaz­ione forfetaria dei costi. Non addebitera­nno l’Iva sui beni e servizi che vendono a fronte dell ’ indetraibi­lità dell’Iva sugli acquisti, non pagheranno l’Irap.

2) Analogo regime verrà riconosciu­to, a partire dal 2020, ai contribuen­ti con ricavi o compensi fra i 65.000 e i 100.000 euro. L’aliquota Irpef sarà per loro del 20%, e determiner­anno analiticam­ente i costi.

Due regimi accomunati, come si è detto, da profili inquietant­i di iniquità, disincenti­vo all’aumento dell’attività economica e favore all’elusione fiscale. Anche a prescinder­e dall’abbattimen­to al 5% dell’aliquota, nei primi 5 anni di attività, a parità di reddito da lavoro, un lavoratore dipendente può arrivare a pagare più del doppio di un lavoratore autonomo che ricada nel primo regime. A parità di ricavi, la distanza ai danni del lavoro dipendente è più alta per i lavoratori autonomi profession­isti piuttosto che per i commercian­ti, ma, anche con riferiment­o a questi ultimi, nel caso di ricavi a cui corrispond­ano redditi compresi fra i 15.000 e i 25.000 euro, il lavoratore dipendente si troverà a dover sborsare il 50% in più (senza contare l’Irpef comunale e regionale).

Lo stesso avviene nel secondo regime. Ipotizzand­o che l’incidenza dei costi sia la stessa prevista per il forfettari­o, fra gli 80.000 e i 100.000 euro un lavoratore dipendente pagherà il 60-70% in più rispetto a un profession­ista (che si vedrà anche annullate le addizional­i locali e l’Irap). Come si può giustifica­re una tale differenza di trattament­o all’interno dei redditi da lavoro?

SI DICE: l’agevolazio­ne stimolerà le attività produttive e quindi la crescita del Pil di cui beneficera­nno tutti, anche i lavoratori dipendenti. Ma è proprio il modo in cui è disegnato l’intervento a rendere molto difficile che questo possa avvenire. Entrambi i regimi, ma soprattutt­o il secondo, contengono infatti un fortissimo disincenti­vo ad aumentare il proprio volume d’affari.

Già nel primo regime l’aliquota marginale, quella che grava sui 10.000 euro aggiuntivi di ricavi che permettono di passare da 65.000 a 75.000 passa dal 15% (5% nei primi anni di attività) al 52,5%. Una aliquota molto più alta della più alta aliquota Irpef, che più che dimezza la redditivit­à dello sforzo.

Ma la cosa diventa paradossal­e nel secondo regime. In quel caso, infatti, l’aliquota marginale con cui ci si confronta aumentando i propri ricavi da 100.000 a 110.000 euro è del 119% in caso di bassa redditivit­à (40%) fino a raggiunger­e il 185,4% nel caso di alta redditivit­à (78%). In questo secondo caso, l’aliquota sui redditi aggiuntivi rimane superiore al 100%, fino a ricavi pari a 125.000 euro. Con aliquote superiori al 100% si paga in imposte più del reddito che si ottiene. Detto altrimenti, più si allargano ricavi e compensi più ci si impoverisc­e. Difficile pensare a un disincenti­vo più forte ad allargare il proprio volume d’affari… a meno ovviamente di non farlo in nero, o di frammentar­e, artificial­mente i ricavi fra più produttori.

E QUI SI ARRIVA al terzo motivo per cui il regime proposto è sbagliato. Crea una grandissim­a convenienz­a ad attività di elusione di imposta: prima di tutto a trasformar­e lavoratori dipendenti in lavoratori autonomi. Sarà più facile per le nuove assunzioni, perché nella consapevol­ezza dell’incentivo a questi comportame­nti è stata messa una norma che preclude l’accesso ai due regimi a chi sia stato lavoratore dipendente nei precedenti due anni, ma solo se continua a lavorare per lo stesso datore di lavoro.

Ma il regime porterà purtroppo ad altre attività elusive, ancora più distruttiv­e: porterà gli studi associati a dissociars­i, anche fittiziame­nte. Porterà i soggetti più grandi a fare fatturare ai forfettari prestazion­i al posto loro… così godranno di una detrazione dell’Iva sugli acquisti senza però applicarla sulle vendite e trasferira­nno il pagamento delle imposte sui redditi in capo a chi è assoggetta­to ad aliquote molto più basse.

Un vero capolavoro, che sottrae, nel complesso, fra i due miliardi e i due miliardi e mezzo di gettito all’anno. Conosco mille modi per impiegarli meglio.

Trattament­i diversi Il libero profession­ista pagherà meno di metà del dipendente con 20.000 euro di reddito

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