Dura lex sed lex
Oggi sapremo se Virginia Raggi verrà assolta e resterà sindaco di Roma fino alla scadenza del mandato, o se sarà condannata e dovrà dimettersi in base al codice etico 5Stelle. Nel primo caso potrà finalmente governare a tempo pieno, senza dividersi fra il Campidoglio e il Palazzo di Giustizia, come le è capitato dal giorno dell’elezione per una serie impressionante di indagini su di lei – tutte fondate sul nulla e finite nel nulla – e sui suoi principali collaboratori, quasi tutte finite nel nulla (tranne il processo a Raffaele Marra, per una presunta corruzione risalente all’èra Alemanno). Nel secondo caso, dura lex (pentastellata) sed lex: l’ipotesi che resti al suo posto in barba al Codice etico, magari con l’escam otage di uscire con tutti i suoi consiglieri dal M5S per sottrarsi alle regole interne, sarebbe un grave errore. Per la sua immagine e per quella dei 5Stelle: le regole, a cominciare da quelle che ci si è dati, si rispettano. E, se sono sbagliate, si cambiano: ma per il futuro, non ad personam. Noi scriviamo da tempo che il Codice etico M5S è troppo rigido nell’automatismo condanna di primo grado- dimissioni: il principio è sacrosanto, ma poi sono i partiti e i loro probiviri a doversi assumere la responsabilità politica di una scelta così cruciale. Non per convenienza, ma alla luce dei fatti. Se ci sono di mezzo scambi di denaro che fanno pensare a tangenti, malversazioni conclamate, rapporti documentati e consapevoli con malavitosi, abusi di potere accertati, non è neppur necessario attendere un rinvio a giudizio, ma neanche avviso di garanzia: a casa subito.
Altra faccenda sono le questioni di lana caprina su fatti in sé neutri e controversi, come quello di cui è imputata la Raggi: la lettera del dicembre 2016 all’Anticorruzione comunale in cui la sindaca, a proposito della nomina di Renato Marra (graduato dei Vigili urbani e fratello del capo del Personale Raffaele) a capo dell’ufficio Turismo, assicurava di aver deciso da sola, sentito l’assessore competente Adriano Meloni, mentre Marra si era limitato a vistare per le Risorse Umane l’atto del sindaco (che, come tutti gli atti vincolati, non può configurare conflitti d’interessi). Meloni e il delegato al personale De Santis han poi raccontato che Marra parlò con loro della nomina del fratello, ma nessuno di loro lo disse a lei, anche perché la scelta fu dell’assessore che stimava Renato per l’esperienza fatta insieme contro il commercio abusivo. Dunque la Raggi scrisse all’Anticorruzione quel che risultava a lei, fra l’altro n el l’ambito di un “i nt e rp el lo ” per la rotazione di 200 dirigenti comunali, di cui Marra fratello rappresentava lo 0,5%.
Enessuno in aula ha potuto smentirla, sostenendo che sapesse delle interferenze di Raffaele. Ogni reato, poi, deve avere un movente, e qui è arduo trovarne uno. Inizialmente la Procura accusava la Raggi di abuso d’ufficio per aver assecondato il conflitto d’interessi familiare di Raffaele Marra e di falso per la lettera all’Anticorruzione che mirava a coprirlo. Ma poi è emerso che la sindaca aveva fatto di tutto per scongiurare quel conflitto d’interessi: aveva addirittura scartato la candidatura di Renato a comandante o vicecomandante dei Vigili, cioè per un salto di carriera e stipendio (dalla terza alla prima fascia) cui il graduato legittimamente poteva aspirare in base ai titoli. E aveva messo in guardia i propri collaboratori: tant’è che quando scoprì che anche la nomina al Turismo (terza fascia) comportava un aumento di stipendio, s’infuriò con loro per non averla avvertita e revocò pure quella mini-promozione, nel frattempo entrata nel mirino dell’Anac. Così, esclusa la complicità nel conflitto d’interessi dei due Marra, i pm han chiesto e ottenuto l’archiviazione dell’abuso per la Raggi, processando il solo Marra: dunque, sparito l’abuso da nascondere col falso, è evaporato anche il movente del falso. Perché mai la Raggi avrebbe dovuto mentire, se non voleva favorire i Marra, e anzi aveva “danneggiato” Renato per il cognome che portava?
Ieri, dopo l’imbarazzante testimonianza dell’ex capogabinetto Carla Raineri, il pm ha estratto dal cilindro un nuovo movente: la Raggi “me nt ì all’Anticorruzione nel dicembre 2016 perché, se avesse detto la verità e riconosciuto il ruolo di Marra nella scelta del fratello, sapeva che sarebbe stata iscritta nel registro degli indagati e, in quel caso, rischiava il posto in base al vecchio codice etico M5S, modificato solo nel 2017”. Ma non è vero che rischiasse il posto. E nessuno poteva saperlo meglio della sindaca ( e della Procura di Roma): la prima volta che la Raggi finì indagata (anche allora per falso), fu addirittura nel luglio 2016, appena eletta, dopo un articolo di Marco Lillo e vari esposti su un incarico all’Asl di Civitavecchia segnalato in ritardo al Consiglio comunale. Eppure nessuno, quando fu eletta, le chiese di dimettersi (l’indagine fu poi archiviata). E che il vecchio Codice etico non stabilisse alcun automatismo fra iscrizioni o avvisi di garanzia e dimissioni lo dimostrano almeno altri due casi: Pizzarotti, sindaco di Parma, fu indagato nel maggio 2016 per abuso e nessuno lo fece dimettere (fu soltanto sospeso dal Movimento, ma per non aver avvertito i probiviri dell’avviso di garanzia); idem per Nogarin, sindaco di Livorno, indagato pure lui nel maggio 2016 addirittura per bancarotta fraudolenta e rimasto tranquillamente al suo posto. Dunque, se non rischiava le dimissioni, non si sa né se né perché la Raggi avrebbe dovuto commettere il falso (rischiando, lì sì, un’indagine). Lo si saprà, come in tutti i casi controversi senza “pistola fumante”, dalla sentenza definitiva. È qui che il Codice etico ha una falla e va modificato. Ma per i casi futuri, non per la Raggi. Che oggi, se condannata, dovrà dimettersi.