L’ambasciata a Ryad intima a Lega e club: giocate la Supercoppa
Vince il denaroDopo l’omicidio del dissidente Khashoggi, il calcio fa finta di nulla e si prepara a giocare Juve-Milan in Arabia Saudita
C’è un dilemma che il pallone italiano – con palese ipocrisia e il supporto del governo – ha rinchiuso negli spogliatoi per non infastidire il pubblico pagante: è opportuno disputare in gennaio la finale di Supercoppa d’Italia tra Juve e Milan a Gedda, l’affascinante città saudita sul Mar Rosso, dopo il barbaro assassinio di un dissidente dei regnanti, il giornalista e scrittore Jamal Khashoggi? Il muro invalicabile che impedisce finanche la riflessione è il solito muro di denaro, rapporti, appalti. E va oltre il contratto – circa 21 milioni di euro per tre edizioni di Supercoppa – che la Lega di Serie A ha firmato con Abdel Muhsin Al-Asheikh, il capo di General Sports Authority, la struttura statale creata da re Salman per trasformare lo sport in oppio dei popoli, peraltro solida usanza mutuata da altri regimi di altre epoche. Il pallone tricolore ammutolisce perché l’Italia non ha una posizione sul commando legato al governo di Ryad che, un mese fa, ha sequestrato e trucidato Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul. Jamal era un oppositore dei sovrani e dei metodi spietati del principe Mohammed bin Salman, l’erede al trono.
IL MILAN CHE FU di Berlusconi, e per un giro di beffe di uno sconosciuto e squattrinato cinese, e adesso è del fondo Elliott, tace impettito perché s’attiene – la formula non è casuale né banale – agli ordini dei vertici supremi della Lega. La Juve che è sempre della famiglia Agnelli, e arruola tra dirigenti e consiglieri una sparuta truppa di dubbiosi, è una società quotata in Borsa con una geopolitica complessa. Pure la Signora, la protagonista più scettica della vicenda, s’attiene agli ordini dei vertici supremi di Lega. E anche il servizio pubblico Rai, strattonato dai sindacati interni che invocano la sospensione del vincolo con la Lega che obbliga Viale Mazzini a trasmettere la partita del 16 gennaio, s’attiene agli ordini di eccetera, eccetera. E allora chi emana gli ordini – cioè la Lega Serie A, una congrega di patron del calcio che affitta volentieri lo spettacolo che produce – che linea suggerisce? Semplice, non suggerisce. Perché la Lega, un gruppo molto litigioso affidato al banchiere Gaetano Micciché, non s’intesta una rottura diplomatica con l’Arabia Saudita. Al contrario, la Lega ha scartato presto l’ipotesi perché ha ricevuto un’indicazione precisa: l’ambasciata italiana a Ryad ha esortato Micciché & C. a non interferire, a non irritare gli amici sauditi, così generosi con la nostra Italia, così facoltosi e dunque potenzialmente ancora più generosi. Il patto con Ryad impone alla Lega di trasferire dai sauditi il circo della Supercoppa tre volte nei prossimi cinque anni: in teoria, l’incontro di gennaio può saltare, se davvero ci fosse bisogno e intenzione di segnalare un disagio, marcare una distanza. Invece no. Le tribune dello stadio King Abdullah – totale di 62.241 posti – vanno riempite per dimostrare in diretta mondiale l’efficienza di Salman e figli, l’importazione a tempo di un simbolo occidentale. E l’Italia s’adegua. È di settembre una commessa di 2,9 miliardi di dollari a Ferrovie, in un consorzio con Ansaldo e Alstom, per la gestione della metropolitana di Ryad.
È sempre in vigore l’accordo tra Rmw Italia, società del gruppo tedesco Rheinmetall Defence con basi in Sardegna, che da anni fornisce bombe ai sauditi, le stesse che ammazzano e distruggono nell’ignorata guerra civile dello Yemen. Lo sport non annacqua i regimi, ma li amplifica e li tollera, come i Mondiali in Argentina nel ’ 78, la Davis in Cile nel ’76, le Olimpiadi di Berlino nel ’36. E poi la Lega ha noleggiato già la Supercoppa a Tripoli con Gheddafi ( 2004), a Doha ai qatarioti nemici di Ryad (2016). Il sistema pallone, la Fifa di Gianni Infantino, ha prestato la carovana dei Mondiali ai russi (2018) e proprio al Qatar (2022). Il calcio ha smesso di nascondersi dietro la bugia del sentimentalismo: è un’industria. Non conta l’etica, ma il fatturato.