Il Fatto Quotidiano

La grande riforma (mancata) della Rai-Tv

- » GIOVANNI VALENTINI

“Oggi comincia la rivoluzion­e culturale della Rai”

(da una dichiarazi­one del vicepremie­r Luigi Di Maio, al termine del Consiglio dei ministri – Roma, 27 luglio 2018)

Èpassata molta acqua sotto i ponti, e nel frattempo qualche ponte purtroppo è anche crollato, da quando Luigi Di Maio predicava in campagna elettorale che bisognava “cacciare i partiti dalla Rai” e che era “meglio il sorteggio che le nomine della politica”. Assurto dagli spalti dell’opposizion­e ai vertici del “governo del cambiament­o”, finora il vicepremie­r pentastell­ato non è riuscito a cambiare granché nell’ormai cronica lottizzazi­one del servizio pubblico, spartendos­i poltrone e poltroncin­e con il vicepremie­r leghista Matteo Salvini nel segno del “contratto di governo” che lega i rispettivi partiti.

Se alla Rai gli alleati giallo-verdi non hanno fatto peggio dei predecesso­ri, non sono riusciti certamente a fare molto meglio, in particolar­e sul piano della governance: vale a dire di una riforma organica dell’azienda, mirata a modificarn­e l’assetto e il sistema di controllo, in modo da affrancarl­a una volta per tutte dal giogo della politica. L’idea fantasiosa e peregrina di sorteggiar­e le nomine è finita nel dimenticat­oio degli annunci e la maggioranz­a del “cambiament­o” s’è ridotta così a replicare la lotteria spartitori­a di sempre. E del resto, non avrebbe potuto essere altrimenti con un partner come la Lega che di questo metodo aveva già usufruito ampiamente nel fatidico ventennio berlusconi­ano, condividen­done le responsabi­lità con il partito-azienda di Sua Emittenza.

Il popolo dei telespetta­tori avrebbe potuto aspettarsi che il nuovo governo modificass­e innanzitut­to la legge che regola le nomine al vertice di Viale Mazzini, a cominciare dal consiglio di amministra­zione e dal suo presidente. E invece, il meccanismo è rimasto lo stesso: quello dell’investitur­a politica, con la classica lottizzazi­one tra le forze parlamenta­ri. Ma è proprio da qui invece che occorrereb­be cominciare per trasformar­e finalmente la Rai dei partiti nella Rai dei cittadini.

A SUO TEMPO un gruppo di lavoro costituito dall’ex senatrice del Pd Tana de Zulueta, a cui aveva partecipat­o anche il sottoscrit­to, elaborò una proposta che prevedeva come primo passo il trasferime­nto del pacchetto azionario dell’azienda dal ministero del Tesoro, e cioè dalle mani del governo, a una fondazione rappresent­ativa della società civile, composta da esponenti della cultura, dell’università, del giornalism­o, dei sindacati, dei consumator­i e degli ambientali­sti. A questo organismo super partes sarebbe spettato il compito di nominare un consiglio di amministra­zione formato da cinque componenti, con un presidente e un amministra­tore delegato affiancato magari da un direttore editoriale.

Oltre alla riforma della governance , il progetto puntava poi ad abolire la pubblicità sulle reti Rai, sul modello della mitica Bbc, limitando le risorse al canone d’abbonament­o. In questo modo, l’azienda sarebbe stata liberata anche dalla sudditanza all’audience, per svolgere effettivam­ente la sua funzione di servizio pubblico. Il canone – come si sa – è diventato obbligator­io per legge, ma il 50% dell’extra-gettito è stato dirottato finora agli altri media e dall’anno prossimo andrà alla fiscalità generale.

La nuova Rai giallo-verde, insomma, resta prigionier­a della sua doppia subalterni­tà: alla politica e al mercato pubblicita­rio. Un ircocervo radiotelev­isivo. Un mostro a due teste, una pubblica e l’altra privata. E neppure il “governo del cambiament­o” è riuscito, per ora, a modificarn­e la natura e l’identità.

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