Bertolucci e PPP, le corse in Alfa e il set di Accattone
Così PPP trasformò il giovane poeta in regista
Ieri a Roma l’ultimo saluto a Bernardo Bertolucci, scomparso lunedì mattina a 77 anni. Per tutto il giorno, in Campidoglio, è stato un via vai di amici, politici e cittadini. La famiglia sta organizzando una serata aperta al pubblico in memoria del regista il 6 dicembre al Teatro Argentina. E dal 30 novembre tornano in sala i due atti di “Novecento”.
Da ragazzo Bernardo Bertolucci scriveva poesie, come suo padre Attilio. E probabilmente avrebbe continuato, senza fare altro, se si fosse rifiutato di percorrere, ogni giorno, quattro rampe di scale. Per comprendere l’inizio della storia del grande regista bisogna partire da lì.
AL PRIMO PIANOdi via Carini 45, a Roma, oggi c’è lo studio di un dentista. Nel 1959, invece, l’elegante appartamento del quartiere di Monteverde Vecchio segnò l’ingresso nella borghesia che contava di un “grande poeta amico mio” – così lo definiva Giorgio Caproni: Pier Paolo Pasolini. A dividere la casa di via Fonteiana – l’approdo precedente – e quel primo piano, distanti tra loro solo pochi isolati, c’era infatti un campanello importante: famiglia Bertolucci, quinto piano. Pier Paolo aveva conosciuto Attilio, il poeta, qualche anno prima, quando tentava di sbarcare il lunario dopo il suo arrivo nella Capitale dal Friuli: “Pasolini era molto povero – raccontò poi Bertolucci padre – tanto da dover fare la comparsa e scrivere su quei giornali, ma volle che andassi a pranzo a casa sua, a Ponte Mammolo, dove ci sono le carceri di Rebibbia”. E fu proprio lui ad aiutarlo, facendogli firmare il primo contratto editoriale per una An to log ia della poesia dialettale del Novec e nt o e presentandolo poi a Livio Garzanti per la pubblicazione di Ragazzi di vita.
A quel poeta, dunque, il giovane Pier Paolo doveva molto. Fu un passo naturale volerglisi avvicinare.
Casa Bertolucci, in quegli anni, era una fucina del sapere: scrittori, artisti, editori, cineasti spesso si ritrovavano insieme a colloquiare. E a quei cenacoli intellettuali prendeva parte anche il giovane, discreto Bernardo. Pasolini lo descrisse così, nella poesia A un ragazzo (“Le ceneri di Gramsci”): “Col sorriso confuso di chi la timidezza/e l’acerbità sopporta con allegrezza,/vieni tra gli amici adulti e fieramente/umile, ardentemente muto, siedi attento/alle nostre ironie, alle nostre passioni./ Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,/ vergognandoti quasi del tuo cuore f e st o s o …/ Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,/ma perché esiste: per te, perché tu sia/nuovo testimone, dolce- contento al quia…/Rimani tra noi, discreto per pochi minuti/e, benché timido, parli, con i modi già acuti/dell’ilare, paterna e precoce saggezza”.
Verso chiama verso, e la risposta di Bernardo fu in rima: “Vicina a te, timida come una sposa/era la mia emozione l’unica spia/dell’umiltà pro- vinciale che riposa/in me, che scopro fragile poesia”. Quel ragazzo, che intorno ai suoi 16 anni aveva visto “inaridirsi” la sua vena (così lo punzecchiava suo padre), trovò in Pasolini una guida, un amico, un maestro: “Sono gli anni in cui scendevo quattro a quattro gli scalini di via Giacinto Carini – ebbe modo di raccontare ne L’av ve nturosa storia del cinema italiano di F. Faldini e G. Fofi –. Quando gli portavo una mia poesia il suo giudizio partiva sempre con un sorriso impercettibile e muto. Pensavo che avrebbe potuto mettersi a urlare da un momento all’altro, ma non lo faceva mai. I suoi silenzi e i suoi sguardi erano più eloquenti dei lunghi discorsi tipo quelli di mio padre”.“Lui per me era una nuova autorità vicina a quella di mio padre”, specificò poi in un’intervista ad Alain Bergala nel 2013. Fu proprio Pasolini che, tre anni dopo, lo invogliò a pubblicare quel “mucchietto di poesie: chissà cosa pensò mio padre, degradato senza spiegazione a lettore numero due” (da “Il cavaliere della valle solitaria” in P.P. Pasolini, Per il cinema, a cura di W. Siti e F. Zabagli, Mondadori).
QUATTRO PIANI e un’amicizia: insieme, il parmense Bernardo e il bolognese-friulano Pier Paolo andavano alla scoperta di Roma: “Partivamo tutte le mattine alle 8 da via Carini – raccontò ancora Bertolucci a Faldini e Fofi – diretti alla borgata Gordiani, alla Maranella, al Pigneto, a tutti gli altri luoghi che, messi assieme, avrebbero formato l’assoluta unità di luogo della tragedia di Accattone, eroe prepsicologico, preistorico, predialettico, prepolitico”. Cosa era successo nel frat- tempo, tra le poesie e la Maranella? “Arriva la primavera del ’61 e Pasolini, incontrato sul portone, mi annuncia che dirigerà un film. ‘Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto regista’. ‘Non ne sono capace, non ho mai fatto l’aiuto’. ‘Neanche io ho mai fatto un film’” (sempre in Siti e Zabagli). È successo che, nel frattempo, Pasolini ha scelto il “cinema di poesia”, ha deciso che il sottoproletariato di Ragazzi di vita va visto, oltre che letto. Ed è in cerca di luoghi. “Pier Paolo, il regista, guidava un’Alfa Romeo, come avrebbe fatto sempre fin alla sua morte. Io, l’aiuto regista, sono seduto al suo fianco. Durante il tragitto mi racconta i suoi sogni notturni e li elabora, mentre intanto segue la segnaletica stradale con la precisione maniacale di chi conosce il proprio disordine e tenta di compensarlo con un rispetto ossessivo del codice stradale. La funzione prima dell’aiuto regista, dell’assistente, è quella di assistere. È così che io ho seguito la reinvenzione del linguaggio cinematografico di Pier Paolo”.
Ed è così che, a bordo di quell’Alfa o nei campi lunghi o nei primissimi piani polverosi, anche il giovane Bernardo trova la sua strada. Quella che da oggi ci mancherà.
Il palazzo di via Carini Lui al primo piano, noi al quinto. Gli portavo i miei versi, pensavo che si sarebbe messo a urlare ‘Mi dici sempre che ti piace tanto il cinema, sarai il mio aiuto’ ‘Non ne sono capace, non ho mai fatto l’aiuto’ ‘Neanche io ho mai fatto un film’