CONTRO IL LAVORO NERO NON BISOGNA ARRETRARE
La volontà forte di un “cambio di passo”, così il vicepremier Luigi Di Maio salutò la nomina a direttore dell’ Ispettorato Nazionale del Lavoro del generale Leonardo Alestra, direttamente dalla Calabria “terra di mafia e capolarato”: per la prima volta, un carabiniere. “Un segnale contro il lavoro nero”, disse Di Maio.
Che il lavoro nero sia una delle piaghe dell’economia italiana è risaputo. Almeno 3,3 milioni di“lavoratori invisibili” per 77 milioni di euro di fatturato in nero all’anno (43 miliardi sottratti al fisco), secondo la Cgia di Mestre. Sappiamo pure che è la Campania del vicepremier Di Maio – con i suoi 382mila lavoratori irregolari che producono un Pil in nero pari all’8,8% di quello regionale – a detenere il record di maxi-sanzioni dell’Ispettorato per irregolarità riscontrate nelle imprese. Secondo il Rapporto annuale della viglianzadell’ Ispettorato nazionale del lavoro, i controlli svolti nel 2017 raccontano di un lavoratore in nero ogni tre aziende controllate su scala nazionale. E i lavoratori irregolari sarebbero cresciuti del 36% rispetto al 2016. Per il lavoro, è chiaro e il vicepremier e ministro Di Maio lo sa bene, esiste un’emergenza legalità. Il nero finisce per essere considerato un ammortizzatore dell’economia, o un surrogato del welfare: e la crisi economica è diventata un alibi per tollerare l’illegalità, specie al Sud.
Poche settimane fa è stato arrestato il capo dell’ispettorato della Campania, per aver favorito aziende in cambio di un posto di lavoro al figlio. “È finito il tempo delle mele marce” ha detto Di Maio. Mele marce sono anche quegli imprenditori che fanno concorrenza sleale, non versando i contributi ai propri lavoratori, o peggio, chiedendo il silenzio sugli infortuni in cantiere. Va riconosciuta al vicepremier la non facile presa di distanza verso il padre. Perché sul lavoro nero, un ministro del Lavoro non può far passare il messaggio che sulle ispezioni si arretri. Anche se a partire dalla ditta di famiglia.