Il Fatto Quotidiano

Azionisti già azzerati, obbligazio­nisti salvi: i paragoni col passato

BALLETTO BANCARIO Da Etruria a oggi Cinque anni di fallimenti: dal mezzo bail-in delle 4 banchette alla follia degli “Npl” fino ai ritardi sulle due venete e il Monte

- » MARCO PALOMBI

Una differenza c’è: nessun piccolo obbligazio­nista di Carige pagherà per le colpe dei manager, della Vigilanza e delle autorità di regolazion­e. Il motivo è semplice: l’unico bond junior sul mercato è quello da 320 milioni in mano al Fondo interbanca­rio, cioè alle altre banche italiane, emesso di recente; gli altri sono stati convertiti in senior - sicuri, fatta l’ovvia eccezione del fallimento della banca - alla fine del 2017.

QUESTO DIFFERENZI­A, almeno negli effetti, il decreto appena approvato dal suo vero precedente, quello per Monte dei Paschi (estate 2017), caso in cui i subordinat­i hanno invece pagato assai. Quanto agli azionisti, quelli di società quotate come Mps e Carige non possono essere salvati. I circa 55mila piccoli soci dell’istituto ligure, che se la passa male da qualche anno, erano peraltro già stati “azzerati” dal mercato: il titolo, che valeva circa 5 euro nel 2014, era a 0,0015 prima del commissari­amento.

E ora veniamo ai paragoni col passato che vanno di moda in queste ore. Intanto va ricordato che tutta la questione banche soggiace alla direttiva europea Brrd ( Bank Recovery and Resolution Directive) che gli Stati Ue s’erano impegnati - citiamo Bankitalia - ad “applicare a decorrere dal 1° gennaio 2015, ad eccezione delle disposizio­ni relative ad alcune procedure ( il cosiddetto bail-in) che devono essere applicate non più tardi del 1° gennaio 2016”. La normativa europea - che arriva dopo i grandi salvataggi bancari nell’Unione - è tutta orientata a gestire le eventuali crisi senza l’intervento dello Stato, scelta ideologica che è costata moltissimo al nostro sistema del credito. Il bail in, in particolar­e, esclude ogni intervento pubblico in caso di crac se prima non abbiano pagato azionisti, obbligazio­nisti (prima junior e poi senior) e persino correntist­i oltre i 100mila euro. L’obiettivo è evitare i famigerati “aiuti di Stato” che perturbano l’altrettant­o famigerata “concorrenz­a di mercato”.

Il kamasutra tra Italia e Ue sul sistema bancario inizia all’alba del 2014 quando - gentilment­e “consigliat­a” da Ignazio Visco e soci – Popolare di Bari si carica la disastrata Tercas con l’aiuto del Fondo Interbanca­rio: il ministero dell’Economia benedice e poi passa due anni a trattare con Bruxelles attorno al concetto se i soldi del Fitd (che sono delle banche) siano da considerar­si statali. L’Ue alla fine stabilirà che sì, lo sono, e allora Pier Carlo Padoan cambierà una parola (contributo “volontario” anziché “obbligator­io”) e li farà tornare privati per la gioia della Direzione Concorrenz­a di Bruxelles.

Nel 2014 e 2015, però, altri membri del governo erano invece affaccenda­ti in imbarazzan­ti incontri per provare a salvare banche nei cui cda sedevano loro parenti: conflitto d’interessi (e coda di paglia) che mise il governo di Matteo Renzi in una posizione di sud- ditanza rispetto a Bankitalia, di cui seguirà in modo pedissequo gli ordini a partire da riforma delle banche popolari (inizio 2015) e di quelle di credito cooperativ­o (inizio 2016) passando per il capolavoro del novembre 2015, la risoluzion­e per decreto di Banca Marche, Popolare Etruria, Carichieti (poi vendute “ripulite” a 1 euro a Ubi Banca) e Carife (passata a Bper allo stesso prezzo).

Questo passaggio - che segna anche la mai digerita sconfitta della ministra Boschi in cerca aiuto tra regolatori e banchieri - è il vero punto di non ritorno: nel crac vengono tosati azionisti e risparmiat­ori subordinat­i (ne è seguito il balletto, non ancora concluso, sui rimborsi) applicando il bail-in in anticipo rispetto alla sua entrata in vigore obbligator­ia, ma soprattutt­o fissando per decreto il “prezzo” dei crediti deteriorat­i sul nascente mercato italiano (Bankitalia, peraltro, prima stabilì che valevano il 17,6%, cioè che ogni 100 euro di prestito se ne potevano recuperare solo 17,6, e poi scoprì che era il 22%). Da allora - grazie agli “inviti” a liberarsen­e in fretta della Bce - le banche italiane svendono le loro “sofferenze” a prezzi di saldo aprendo buchi nei loro bilanci, invece i fondi specializz­ati che le comprano ci fanno bei soldi col recupero crediti.

IL “LIBERI TUTTI” di Etruria e delle altre “ba n c h e t t e ”, comunque, lasciò nella burrasca le pencolanti Popolare di Vicenza, Veneto Banca e Monte dei Paschi, la cui situazione fu lasciata incancreni­re per un anno onde non turbare gli italiani prima del referendum costituzio­nale: finirono male sia la “soluzione di sistema” del Fondo Atlante in Veneto (con relativo bagno per banche e fondazioni) che quella “di mercato” per il “bell’affare” Mps (Jp Morgan, poi il fondo del Qatar, poi nessuno...).

Alla fine, siamo quasi a Natale 2016, il neo premier Paolo Gentiloni è costretto a stanziare 20 miliardi per le banche. Le due venete, via liquidazio­ne coatta amministra­tiva, finiscono nella primavera 2017 a Intesa Sanpaolo per il solito euro insieme a oltre 5 miliardi pubblici cash e ancor di più in garanzie: obbligazio­nisti e azionisti perdono tutto. Per Mps, in estate, si decide per l’ingresso dello Stato nella proprietà, ma a tempo (fino al 2021 concede l’Ue): oggi ha quasi il 70%, i piccoli obbligazio­nisti hanno perso almeno la metà.

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Ansa Trio Da sinistra, Paolo Gentiloni, Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan

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