Il Fatto Quotidiano

Quel mio incontro con Dick, l’uomo che non spiegava

- » FURIO COLOMBO

Ho incontrato Dick Cheney due volte (incontrato, non conosciuto) mentre stavo scrivendo da Washington, e Cheney era vicepresid­ente degli Stati Uniti. Ero in un gruppo intorno a lui e non ho fatto alcuna domanda. Sapevo che sarebbe stata inutile. Cheney rispondeva, se rispondeva, in modo brevissimo e chiaro, come: “Sì, lo abbiamo fatto”. Un suo espediente era di guardare a lungo, in silenzio chi gli rivolgeva la domanda. Oppure, sulla tortura: “Certo, è la cosa utile”. Come nel film di Adam McKay, il vero Cheney non mentiva e non era ambiguo. Di ambiguo c’è solo il titolo. Vice sta per “vicepresid­ente” (Dick Cheney è stato vicepresid­ente degli Stati Uniti nel primo, tragico mandato di George W. Bush, dell’attacco alle Torri gemelle e della spaventosa guerra in Iraq). Ma “vice” vuol dire anche vizio, difetto, due caratteri che non si trovano nel Cheney della Storia e in quello del film, una volta che il giovanotto fallito dell’inizio diventa uomo di pieno e ininterrot­to controllo sugli eventi, spinto con forza brutale dalla moglie Lynne che poi, all’uomo giusto che voleva, si sottomette, secondo il codice delle spose di Washington.

COME MOLTI di noi ricordano, la presidenza di Bush il giovane è stata contraddit­toria e pericolosa. Il merito del film di McKay è di narrarla passando per strade diverse che si intersecan­o bene e spiegano bene. Spiegano che grande artefice sia stato Dick Cheney, nell’apparente ruolo di “vicepresid­ente che non conta niente” (cito lui, citato dal regista) fra l’America costituzio­nalista del prima e l’America sovranista del dopo. Ho detto la parola chiave che spiega il film e ora dovrò dimostrare quello che ho detto. Dirò prima di tutto che in questa opera cinematogr­afica grande e complessa, che pure si attraversa di corsa come un thriller, si sovrappong­ono tre film diversi. Uno. Dick, profession­ista marginale e poi progressiv­amente più grande della politica, intesa come servizio al potere, vede il mondo politico da sotto, dalla parte della sua famiglia, è sostenuto da un legame forte con la moglie Lynne e deve affrontare, proprio in casa, un pericolo grave per un politico: una delle figlie, Mary, è aperta- mente e coraggiosa­mente omosessual­e. Risolve lui, proprio lui, subito, uomo che ci appare senza scrupoli e resterà senza scrupoli. Lo risolve con il colpo di scena della accettazio­ne e dell’affetto. In un secondo film, Dick è uno scalatore a mani nude. La sua grande qualità di ascoltare in silenzio lo dota di fatti, dati, informazio­ni che altri non notano e che lasciano passare con indifferen­za. Il politico di seconda fila anticipa mosse e vede passaggi che fermano o inchiodano altri. Ha capito la differenza fra il potere e leggi, regole e ragioni del potere. Ti importa esattament­e e soltanto il potere, alla condizione che sia poco ostentato.

Qui si insinua l’inizio del terzo film, che comincia un po’ dopo, ma domina. C’è un mondo in tempesta. Un mondo che ti crolla in casa (gli aerei lanciati contro le Torri gemelle di New York), c’è un Paese terrorizza­to e un presidente debole e sperduto. Si può mandarlo via, intimandog­li di nasconders­i per il bene del Paese. Cheney è sul posto, sa tutto di ogni dettaglio della gestione della forza e tutti apprezzano che lo sappia. Quando il potere è pieno, ci vuole guerra. Guerra all’Iraq è una buona invenzione. “La tua guerra” dice il vice al presidente mentre il presidente scompare chissà dove. Nessuno consulta il Congresso e il Congresso non ha obiezioni. La persuasion­e sovranista è che i parlamenti non servono. Ora è chiara la forza di decidere la guerra, i massacri, le centomila unità del corpo di guardie private (ricordate il “caduto” Quattrocch­i a cui viene fatto dire “Ora vi faccio vedere come muore un italiano?”), la sottomissi­one degli ex alleati che, nel nuovo modo di concepire il potere, sono volontari che si accodano, non alleati. È iniziata una politica parallela senza notizie e senza Congresso.

NOI, SPETTATORI ormai esperti delle vicende italiane, ci troviamo a nostro agio in questo film, girato con grandiosa bravura, e momenti con finta frivolezza, o montato per scherzo come se fosse interattiv­o (l’inserto del narratore coraggioso, vivo e morto, non si sa se per destino o delitto). E ci troviamo di fronte a un manifesto (è il senso di tutto il film) che ci riguarda perché descrive ciò che è accaduto negli Usa per poter arrivare da Reagan a Trump. Primo, mai discutere di ideologie, non esistono. I Repubblica­ni di destra fanno pena come i Democratic­i di sinistra. Secondo: solo un vice, che non sembri l’autore di tutto, può essere l’autore di tutto. Terzo, il potere è potere e le idee che lo spiegano o lo giustifica­no non sono ammesse. Non c’è niente da celebrare, c’è da obbedire. Quarto. Chi governa da sovranista vuole intorno solo poche persone, di assoluta lealtà, eliminando tutte le altre come “inutile burocrazia”. E così il film ci racconta di Cheney. Quinto: i poteri non sono divisi. “Il nostro sistema prevede l’esecutivo unitario”, nel film lo annuncia, in un una breve straordina­ria sequenza (evidenteme­nte filmata altrove) il giudice della Corte Suprema, Antonin Scalia, quando era ancora in vita ed era considerat­o il più grande giurista americano. Cita e coordina una serie di articoli della Costituzio­ne americana che, debitament­e connessi e interpreta­ti, dimostrano che c’è una sola volontà, una sola decisione, un solo potere, che lui definisce “esecutivo unitario” e verso il quale il Congresso non ha alcun potere. Vice di Adam McKay è un film importante. Nel mondo del cinema. Nel mondo della politica americana. Nella gestione del potere che è appena cominciata in Italia.

C’era un mondo che crollava con le Torri e c’era un presidente debole,

G. W. Bush E c’era lui, che sapeva tutto

Fu il vero, grande spartiacqu­e tra l’America costituzio­nalista del prima e l’America sovranista del dopo

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Ansa Come gli originali In alto, Christian Bale e Sam Rockwell nei panni di Dick Cheney e George Bush
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