Il “douleur” della Duras, Marotta-animals e De Crescenzo
Quanto mai opportuno che “dolore” in francese sia un sostantivo femminile, e dunque La douleur, romanzo autobiografico della somma Marguerite Duras, scritto nel 1944 ma pubblicato solo nel 1985, ora trasposto al cinema da Emmanuel Finkiel.
FILM FEMMINILE, femmineo e femminista, complice la lettera della Duras, che risuona per bocca di Mélanie Thierry, minuta e volitiva, e ancor più brava: La douleur è una prova di intelligenza, emotiva e tout court, nonché un peana alle virtù antiborghesi, al primato della sostanza umana sulla forma sociale, un chiodo conficcato lì dove sta scritto “è giusto”.
Giusto aspettare un marito, pensarlo ogni minuto, di ogni ora, per ogni giorno, seppure forse non lo si ami più, di certo lo si vorrebbe lasciare: accade a Marguerite, nella Francia del 1944 occupata dai nazisti, giacché il consorte, Robert Antelme, come lei intellettuale e membro della Resistenza, viene preso dalla Gestapo e mandato chissà dove. Lei vorrebbe un figlio da Dionys Mascolo (Benjamin Biolay), compagno di lotta e desiderio, lei incontra il collaborazionista Rabier (Benoît Magimel) e ci gioca come il topo con il gatto, e viceversa: tornerà, lui? Finkiel al diapason della Duras sa come accordarsi, ad Auschiwtz il padre perse i genitori e il fratello, ma questa affinità non è mai intesa né utilizzata per prevaricare il diario di Marguerite, al più integrato con qualche notazione sugli ebrei e lo sterminio: il film non vuole mai sentirsi superiore al libro che adatta, bensì prestargli fede, cercando di trasformarne al meglio le potenzialità cinematografiche, che la futura regista vi aveva puntualmente ma ancora inconsciamente disseminato.
Che cos’è l’attesa, che cos’è il dolore per un’assenza, che cos’è la Storia messa in abisso in una storia, che cos’è la cosa giusta, da sentire ancor prima che da fare? Finkiel non si sottrae, con la voce over della Thierry legge la Duras per fi- lo e per senso, con le testimonianze dei salvati ricorda come vedere l’orrore escluda spesso il poterne parlare, però poi fa il contrario. Sopra tutto, ci dice dell’attesa, un tempo che tempo non è, la compresenza di un qui e ora e un là e non ora che potrebbe non arrivare mai: un tempo parziale, monco e affilato che in Marguerite s’abbina a un dolore in contumacia, da mandare ai pazzi. SICCHÉ FINKIEL
toglie definizione alle immagini, certezza al futuro, intelligibilità ai sentimenti, senso alla Sto- ria, e raddoppia, divarica, dialettizza: una, nessuna e quante Marguerite, forse le due che condividono la stessa inquadratura e un tempo doppio? In tempo di guerra nessuna cortesia per gli ospiti, Dyonis sferza: “A cosa tieni di più? A Robert Antelme o al tuo dolore?”, Marguerite non è da meno: “A ogni ora, di ogni giorno” il marito l’ha pensato, ma è intenzionata a lasciarlo. Perché solo se rimaniamo fedeli a noi stessi la Storia non avrà la meglio sulla storia, e sulla verità. Da vedere.