Il Fatto Quotidiano

Stragi e depistaggi, duello in tribunale fra poliziotti-testimoni

- » MARCO LILLO

Non c’è stato solo un confronto tra due ex dirigenti della Polizia nell’aula di Caltanisse­tta giovedì. Quello tra Luigi Rossi e Calogero Germanà al processo per il depistaggi­o delle indagini su via D’Amelio è stato un confronto tra due modi di intendere la Polizia e lo Stato. Germanà ha raccontato di aver firmato il 20 maggio 1992 un rapporto che indirizzav­a un’indagine cara a Borsellino su ambienti vicini a un ministro di allora, Calogero Mannino. L’indagine verteva sul tentativo di ambienti mafio- massonici di condiziona­re una sentenza. Un giorno dopo la consegna ai pm del rapporto fu convocato a Roma dal Capo della Criminalpo­l Luigi Rossi che gli chiese conto di Mannino.

POCHI GIORNI dopo – ha raccontato Germanà – alla comunione della figlia, un cugino gli disse che anche Mannino voleva incontrarl­o. “Rifiutai”. Il peggio però doveva venire: l’8 giugno 1992 Germanà fu rimosso con modalità umilianti: “Mi chiamarono di domenica dal mio vecchio commissari­ato di Mazara del Vallo dicendomi: lo sai chi è il prossimo commissari­o capo? Rino, sei tu! Da domattina”. Già capo della mobile di Trapani nel 1991, dirigente a Palermo su richiesta di Borsellino, Germanà tornava a Mazara per fare il commissari­o: una retrocessi­one beffarda.

Ben diverso il trattament­o dello Stato all’altro protagonis­ta del confronto: Rossi era capo della Criminalpo­l. Poi sarà vicecapo della Polizia e sottosegre­tario all’interno nel Governo Dini. Germanà invece incontrò prima l’umiliazion­e dello Stato e subito dopo la punizione di Cosa Nostra: il 14 settembre del 1992, fu inseguito sul lungomare - come ha ricostruit­o giovedì al processo - da un commando composto da tre boss come Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano. Il mitra di Bagarella si inceppò e così Germanà ha potuto raccontare giovedì come reagì. Sparò con la sua pistola e poi scavalcò il muretto del lungomare. Si tuffò in acqua per schivare i colpi. Con questa storia, la sua carriera si è conclusa mestamente da Questore a Piacnza.

Giovedì però si è preso la soddisfazi­one di ripetere davanti al prefetto Rossi la storia di quell’incontro. Lui ricordava tutto. Il prefetto era evasivo. A un certo punto Rossi si è indispetti­to con il pm Gabriele Paci: “I ricordi sono di 27 anni fa (...)se poi mi vuole incriminar­e come falso testimone proceda pure, le sue domande sono insidiose, abbia rispetto dei miei 88 anni”.

Quando il pm Paci ha chiesto e ottenuto dalla Corte il confronto con Germanà, Rossi ha aggiunto: “lo convocai perché il Capo della Polizia Parisi mi chiese di convocarlo”. E poi: “ignoro le motivazion­i del suo trasferime­nto”.

Il processo vede imputati per il depistaggi­o delle indagini sulla strage di via D’Amelio solo tre ‘pesci piccoli’del gruppo investigat­ivo ‘Falcone Borsellino’: l’agente Michele Ribaudo, l’ex ispettore Fabrizio Mattei e Mario Bo, ex funzionari­o che oggi è dirigente a Gorizia. La procura li accusa di calunnia aggravata. Prima però bisogna ricostruir­e il contesto. Cosa era davvero la Polizia italiana nel 1992? Rossi convoca il vicequesto­re Germanà il 21 maggio, due giorni prima di Capaci. Secondo Germanà ha già letto il rapporto ed è preoccupat­o per l’accenno al politico della corrente di Mannino.

La storia nella quale Germanà incappa è più grande di lui e parte da lontano: nel 1980 a Monreale il capitano Emanuele Basile viene ucciso. Il giudice Paolo Borsellino fa condannare i tre killer: Armando Bonanno, Vincenzo Puccio e Giuseppe Madonia, molto vicino a Riina. Il Capo dei Capi decide che l’unico verdetto possibile per quel caso è l’assoluzion­e. Per questa ragione (vedi scheda) fu ucciso con il figlio il presidente della Corte di Appello che firmò la condanna nel 1987, Antonino Saetta. Quel processo fu un vero braccio di ferro perché stava a cuore anche a Borsellino. Quando il suo amico Salvatore Scaduti, presidente della Corte di appello del secondo processo, fu avvicinato dal notaio Pietro Ferraro nel 1992, Borsellino gli chiese di scrivere una relazione.

Scaduti firmò prima la relazione sulle pressioni e poi la condanna. Al secondo passaggio la mafia punta sulle pressioni politic o- ma s so n ic he . Secondo Scaduti, il notaio Ferraro gli disse che le pressioni per l’assoluzion­e venivano da un politico di nome

Enzo ‘manniniano e trombato’. Inizialmen­te la Polizia aveva puntato sul deputato Enzo Culicchia, che in realtà era di un’altra corrente. Poi Germanà prende in mano le indagini e il 20 maggio firma il suo rapporto: ‘Enzo’ - per lui - è Vincenzo Inzerillo. Il perché lo ha rispiegato giovedì. Non era stato candidato alle regionali, quindi era in quel momento un ‘trombato’. Ed era manniniano, secondo le sue informazio­ni. Ad aprile del 1992 però era stato eletto al Senato. Per questo Germanà con il suo rapporto mette in subbuglio i palazzi. La pista da lui segnalata infatti lega un senatore in carica, vicino al potentissi­mo ministro Mannino, agli interessi di Riina. Ecco perché si muovono Parisi e Rossi. Allora lo Stato non era pronto a recepire quella verità. Inzerillo fu arrestato nel 1995 e condannato definitiva­mente nel 2011 anche per la vicinanza al boss Graviano, quello che nel 1992 puntava il mitra contro Germanà. Il commissari­o bravo a schivare i colpi della mafia. Meno quelli dello Stato.

La storia Germanà indicò un politico vicino a Mannino in un’informativ­a, Rossi lo convocò al Viminale

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Ansa In aulaGli ex dirigenti della polizia Luigi Rossi e Nino Germanà; sopra, via D’Amelio dopo l’esplosione che uccise Paolo Borsellino il 19 luglio del 1992
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