Il Fatto Quotidiano

“Philip odiava la notorietà, il suo aplomb lo proteggeva”

BENJAMIN TAYLOR Lo scrittore amico di Roth: “Ero con lui nella notte di Trump, credeva in un ritorno dei Democratic­i”

- » VINS GALLICO

Benjamin Taylor è un uomo dalla voce pacata, quasi di seta. Uno sguardo pulito illumina un viso proporzion­ato e borghese. È pettinato con cura, elegante senza ruffianeri­e, 66 anni ottimament­e portati. Non è difficile immaginarl­o come il ragazzino de Il clamore a casa nostra.

A quel ragazzino succede qualcosa il 22 novembre 1963…

Avevo 11 anni ed ero davanti all’Hotel Texas di Fort Worth con mia madre, a sentire il presidente Kennedy, che terminò il suo breve discorso e, forse per guardar meglio lei, da donnaiolo qual era, si avvicinò e mi strinse la mano. A scuola lo raccontai a tutti. Qualche ora dopo il presidente fu assassinat­o a Dallas. Parte da quest’episodio per poi raccontare tutto quell’anno: la crisi di Cuba, il Vietnam, il KKK. È un testo che, pur avendo le caratteris­tiche del memoir, apre anche uno spaccato sull’America degli anni 60.

Volevo creare un punto di incontro fra me, la mia famiglia e la nazione. Ho ottenuto questa visione globale diventando più vecchio. Da giovane non mi interessav­a l’autofictio­n, ero più attratto dalle invenzioni narrative, ma ora sono ritornato a quell’anno come una sineddoche della mia vita e anche del mio paese, una parte per il tutto.

Oltre alla consapevol­ezza dell’età, potrebbe averla influenzat­a anche il suo lavoro su Proust, del quale ha scritto un’apprezzata biografia. Proust è stato la mia porta verso l’autobiogra­fia, ma mentre lui era uno scrittore da libri lunghi, io sono uno scrittore della brevità, non voglio annoiare nessuno. E per l’autobiogra­fia non si tratta di accumulare esperienze, ma di coglierne il si- gnificato. Prima di morire hai la possibilit­à di riconnette­re l’accaduto al significat­o. Mentre vivi le esperienze, non c’è possibilit­à di comprensio­ne.

Ne Il clamore a casa nostra troviamo alcune delle sue letture formative, pur non essendo un vero e proprio romanzo di formazione: ci sono dentro Baldwin, Twain, Harper Lee, Salinger, Golding. Sono le letture che mi hanno formato, ma è vero che in un anno non si può parlare di sviluppo del personaggi­o. Non è un Bildungsro­man, ma la descrizion­e della tempesta prima che esploda in un bimbo ebreo, futuro omosessual­e, con la sindrome di Asperger. James Baldwin scrisse: “Per me essere nero, povero e omosessual­e è stato vincere al Jackpot”.

Meglio vivere di gloria ri-

flessa, scrive. Nel libro c’è l’ammirazion­e per il fratello, per il suo migliore amico dell’epoca Robby. E non è un segreto il rapporto profondo che la legava a Philip Roth. Ricorda un po’ il personaggi­o di Thomas Bernhard, Il soccombent­e.

Sono predispost­o all’ammirazion­e. Sono diventato uno scrittore per questo. Questo libro è dedicato allo scrittore che più ho ammirato: Philip. Che le ha dedicato Il fantasma esce di scena.

Ho cominciato a scrivere un libro su di noi prima che morisse, è stata una sua idea. Philip diceva spesso che la strada verso l’inferno è piena di lavori non terminati, per questo non vorrei dire di più. Si sa che ci legava un profondo affetto. Oltre che un rapporto profession­ale. In che senso?

Philip ha editato Il clamore a

casa nostra, per esempio. Per quanto riguarda i suoi, mandava a circa una decina di amici il manoscritt­o, poi ci incontrava­no di pomeriggio, lui accendeva il registrato­re, noi parlavamo, e poi si rinchiudev­a per fare l’ultima stesura. Che tipo era Roth?

Come tutti i miti ha creato una protezione, discostand­o la realtà privata dall’immagine pubblica. Di Hemingway si ricordano la forza e il coraggio, e invece era pieno di fobie e paure. Philip a casa era un altro rispetto alla sua immagine pubblica. Quando ti urlano o ti inseguono per strada, arrivi a odiare la fama. Lui sviluppò quell’aplomb che tutti conoscono. Avevamo un sacco di cose in comune: la passione per la musica, le risate, lo sguardo con cui guardavamo la gloria della letteratur­a americana. Montaigne diceva delle grandi amicizie: “È perché è lui, è perché sono io”, è semplice. Io e Philip ci siamo innamorati al primo sguardo, c’era un magnetismo personale. Reagivamo allo stesso modo alla politica. Ero con lui la notte della vittoria di Trump, ma questo lo troverete nel prossimo libro. E a proposito credeva in un ritorno dei democratic­i. Se dovessi proprio fare una previsione, anch’io lo direi. Ha ridato i famosi 800 dollari alla domestica?

Non erano mica 800, Philip mi chiese di pagarle l’ultima settimana. Estela Solano, oltre ad aver ricevuto il compenso, ormai è diventata una star.

Mandava i suoi manoscritt­i a una cerchia ristretta, poi ci si incontrava per parlare e lui accendeva il registrato­re

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