L’umorismo di Andersson tra le sfighe di Venezia
Bigger than life, dicevano a Hollywood, più grande della vita, così deve essere il Cinema. Con il nuovo millennio la parola d’ordine è stata aggiornata: il Cinema deve essere più sfigato della vita, molto più sfigato, e dire che ce ne vuole. E ancora una volta la Mostra veneziana di Alberto Barbera ha rispettato la tendenza con troppi titoli convenzionali, medi in tutto ma virtuosistici nell’afflizione. Guerre, faide, carneficine, vendette ataviche, rancori sordi, cancri terminali, asme croniche, handi
cap, discriminazioni, schiavitù, persecuzioni minorili, miseria nera… Se uno vuol tenersi allegro nella prima settimana di settembre, sa dove venire. Perché nel
mainstreamdi tanta sfiga alla spina una buona commedia sia diventata più rara del rinoceronte bianco, resta il vero punto interrogativo. Sono anni difficili, complessi, dolorosi, d’accordo; ma così si rincara solo la dose. Unica eccezione, About Endlessness di Roy Andersson, opera diametralmente opposta a tutte le altre in concorso, ci ha ricordato come l’assurdo sia il contrario della sfiga. Poco più di 70 minuti di cinema metafisico, senza genere, senza trama, scritto magnificamente, taciuto meglio, avvolto nel manto di un lucido umorismo nero, lo stesso dei drammi di Beckett o del teatro di Tadeusz Cantor, per citare due dei riferimenti più espliciti. Con la sua fotografia gelida e il suo sguardo ibernato, più morto della morte, Andersson gira direttamente dall’aldilà del Cinema, quello che non esiste più.