“Il romanzo è soltanto un registro delle cattive scelte dei personaggi”
Se lo scrittore americano Salvatore Scibona, il cui nome ci avverte delle sue origini italiane (sicule, a esser precisi), ha impiegato dieci anni per scrivere Il volontario è perché le parole per lui sono importanti. Lo aveva già dimostrato con il romanzo d’esordio La fine (2009), rientrato nella short li st del National Book Award e per questo inserito dal Ne w Yorker tra i 20 migliori scrittor i Under 40. “Cerco di bada
re prima di tutto al senso letterale, su cui poi il lettore può costruire le proprie considerazioni e astrazioni”.
Il titolo, per primo, ci avverte che questo è un romanzo sulla volontà, sulle scelte e sul libero arbitrio – il protagonista, Vollie Frade, un ragazzo dell’Iowa, non aspetta di essere chiamato alle armi e si offre volontario per combattere in Vietnam con i marines –, cruciale nella costruzione della propria identità. “Non so se sia possibile scegliere chi siamo, ma di certo è possibile scegliere cosa fare. Una storia è per vari aspetti un registro delle scelte fatte da una persona”.
“Il volontario”
È la storia di un reduce del Vietnam in cerca di identità: un “war novel” raffinato e sottile
DOPO AVER lasciato la propria famiglia e il suo retaggio agreste per ritrovarsi in Vietnam, Vollie affronterà una missione fantasma in Cambogia, poi verrà fatto prigioniero, e di nuovo partirà per il New Mexico al fine di tentare una nuova vita. Ogni volta, Vollie compirà una scelta su una diversa direzione di vita da intraprendere. Liberamente? “Ho una teoria personale secondo cui il cosiddetto fenomeno de ‘l’investimento emotivo in un personaggio’avviene solo se il lettore avverte che la libertà del personaggio è reale. Il mio romanzo – o più esattamente la storia – è in gran parte il registro delle scelte fatte dai personaggi e dei prezzi che hanno pagato per quelle scelte. La sfida che il protagonista deve, infatti, affrontare non è quella di creare un nuovo sé, ma di liberarsi da ogni sé imposto”.
Il grado zero del romanzo è la guerra, presente nell’educa
zione sentimentale dello scrittore quale momento ineluttabile: “I nonni di mio padre militarono nell’esercito italiano; il padre di mio padre, che pur essendo nato in America parlava a casa in dialetto siciliano e non ha mai imparato l’inglese finché non ha iniziato ad andare a scuola, fu un marine durante la II guerra mondiale e venne gravemente ferito; mio padre è stato marine in Vietnam. E da ragazzino, anche io ho creduto che una volta grande avrei dovuto combattere una guerra e magari essere ucciso.” E ciò perché, prosegue Scibona, “le questioni che affronti durante l’infanzia modellano la tua immaginazione per sempre. Prevedi (spesso in modo impreciso) le scelte che dovrai fare. Ti prepari a quelle scelte nei sogni, negli incubi, ma anche nell’arte”.
Ma a rendere speciale quello che fino a qui potrebbe sembrare l’ennesima (ma ben riuscita) war novel è l’imperdibile voce di Scibona: ora efficace ora esatta pur nelle sue quasi 500 pagine, ora affabulatrice ora tagliente, che ora sorvola i suoi protagonisti e ora penetra i loro pensieri. La voce realistica di uno scrittore americano, ma con un’eco europea. “Scrivo in inglese, lingua verso cui avverto un attaccamento, un senso di casa e tenerezza. Ma per quanto riguarda la mia storia personale, la religione, la formazione intellettuale, le mie radici sono molto europee. Uno scrittore riempie il mondo immaginato di ciò che vede, sente e odora, così come di ciò che la sua immaginazione gli fornisce”.