CARO LUCIO, CI RITORNI IN MENTE
21 anni fa moriva Battisti, uno dei più grandi di sempre
Portò
Grazia Letizia alla biblioteca della parrocchia di San Babila. Era la loro prima passeggiata: tre anni in anticipo su quanto dicono le biografie, il Sanremo ’68 in cui Lucio andò come autore de La farfalla impazzita. A quel punto si amavano già da un po’, la ragazza che lavorava nel Clan di Celentano e il ragazzo salito a Milano per studiare Economia ma anche per tentare la sorte nel mondo discografico dell’Età dell’Oro. A metà dei Sessanta Battisti aveva incontrato le persone decisive della sua vita. Giulio e Grazia Letizia, il socio di scrittura e la futura moglie, ancor oggi divisi da una querelle sulla memoria e sui diritti di edizione del cantautore di Poggio Bustone. Che era un“cantautore ”, appunto, ma atipico. Un genio che metteva a soqquadro i frusti cliché del pop italiano d’antan, a patto che le sue trovate musicali fossero ornate dalle parole di un poeta.
Così che ci siamo ritrovati a cantare di colline di ciliegi e giardini di marzo, di emozioni e acque azzurre senza troppo notare che eravamo stati ipnotizzati dall’altra testa di quel mostro bicefalo: Mogol, l’incursore lirico nella coscienza collettiva del Paese. Immagini, quelle di Giulio, radicate nel subconscio di tre generazioni, e ce ne ricordiamo ogni 29 settembre, senza sapere che quello era un pezzo in cui Mogol, fautore del libero amore, chiedeva perdono alla moglie nel giorno del compleanno, dopo una scappatella. Ma Battisti, il demiurgo delle note, che degli intrighi mogoliani si era fatto portavoce, non poteva restare ingabbiato a vita nei lampi narrativi del socio. Doveva rompere il sodalizio, Lucio, a ogni costo. Nell’ultima intervista del ’79 dichiarò: “Non parlerò più. L’artista non esiste. Esiste la sua arte”. Una portentosa dichiarazione d’intenti: Battisti si smaterializzava dietro la propria musica.
SI DIMENTICASSERO il compagnone, il giovinotto allegro che si sbellicava ruminando le barzellette su Pappagone nel backstage con la Formula Tre. Che non si azzardassero a tentarlo con offerte per farlo tornare in scena: ancora nel ’73, Agnelli gli aveva offerto uno o due miliardi per un concerto a Torino. Lucio non ci teneva a indossare il costume il giullare di corte di fronte al Re dell’Economia e lo mandò a farsi fottere, così come avrebbe fatto 16 anni dopo con Berlusconi, che lo voleva ospite al Festivalbar e di miliardi gliene offriva tre. Lucio l’elusivo. Lucio che spariva: lui e Grazia Letizia nel ’76 se ne andarono da Milano dopo un misterioso episodio in cui al parco la baby sitter avrebbe sventato il rapimento del figlio Luca. Ipotizzarono ci fosse di mezzo l’Anonima Sequestri, ma la vedova Battisti bolla la storia come una frottola, sottolineando, ancora oggi, come certi giornali avessero messo su un falso scoop, e che il trasferimento a Londra fosse dovuto alla necessità di far studiare il bimbo in una scuola inglese, e naturalmente per affacciarsi sul mercato discografico internazionale. Eppure, sostiene Mogol, ben prima di quel periodo Battisti aveva rifiutato un faraonico contratto sotto l’ala dei Beatles per una percentuale ai produttori giudicata esosa.
Lucio l’ingombrante, Lucio l’inafferrabile. Lo bollarono come Fascioqualunquista per un fermo immagine in tv dove pareva facesse il saluto romano, e invece dava il la agli orchestrali. Sussurravano che finanziasse Ordine Nuovo, ma in famiglia giurano se ne fregasse della politica, e semmai interpellino Mogol il rosso, che si era fatto equivocare con i versi sui boschi di braccia tese, e su quel canto libero adottato come un inno nei Campi Hobbit. I neri rivendicavano un pezzetto della tessera di Battisti, ma la collezione dei suoi vinili fu trovata dai carabinieri di Dalla Chiesa nel covo Br di Via Montenevoso, un mese dopo l’assassinio di Moro. Perché tutti erano entrati nella cantina buia dove noi. E pochi, dopo, sarebbero invece riusciti a inoltrarsi nei labirinti verbali di Pasquale Panella, l’Altro Socio, che giocava sui calembour con perfida ed estenuante raffinatezza.
MA È LÌ, nei cinque dischi che vanno da Don Giovanni a Hegel, che dobbiamo investigare più a fondo per misurare la reale grandezza di Battisti. Che nel periodo di transizione tra Mogol e Panella aveva voltato la nuca al passato e rivolto lo sguardo al futuro, come un Giano dispettoso ma consapevole dei suoi diritti d’artista. Quel disco si intitolava E già, i testi scritti con la moglie e le foto dell’album che parevano un manifesto programmatico, scattate su una spiaggia della Cornovaglia, il volto dell’ectoplasma Lucio negato da un lampo di luce in uno specchio. Subito dopo, nei cinque dischi con Panella, possiamo cogliere l’intuizione definitiva di Giano-Battisti: che rinunciò alla compagnia degli altri musicisti per affidarsi ai suoni di un computer, inventando la techno all’italiana, il minimal-elettropop europeista, e indicando un sentiero rap che i miseri epigoni odierni non hanno più saputo percorrere. Eppure era lì. In canzoni temerarie, di abbacinante insolenza, che nessuno può cantare, di cui nessuno cita un verso. Il paradosso di Battisti che si liberava da se stesso, dopo essere stato plebiscitariamente amato con Mogol. Lucio che si era ritirato nella tana degli amori domestici. Dove con Grazia Letizia divoravano libri e li commentavano, perché lui non aveva avuto tempo di laurearsi. Lo appassionavano i tomi di poesia. E i filosofi. Su tutti, Hegel.
1979, L’ULTIMA INTERVISTA Dichiarò: “Non parlerò più L’artista non esiste. Esiste la sua arte”. E da lì rispettò fino in fondo il suo credo
DUE “COSTOSI” RIFIUTI
Nel 1973 Agnelli gli offrì due miliardi per un concerto a Torino; negli Anni ’ 80 B. arrivò a tre per il Festivalbar