Il Fatto Quotidiano

CARO LUCIO, CI RITORNI IN MENTE

21 anni fa moriva Battisti, uno dei più grandi di sempre

- » STEFANO MANNUCCI

Portò

Grazia Letizia alla biblioteca della parrocchia di San Babila. Era la loro prima passeggiat­a: tre anni in anticipo su quanto dicono le biografie, il Sanremo ’68 in cui Lucio andò come autore de La farfalla impazzita. A quel punto si amavano già da un po’, la ragazza che lavorava nel Clan di Celentano e il ragazzo salito a Milano per studiare Economia ma anche per tentare la sorte nel mondo discografi­co dell’Età dell’Oro. A metà dei Sessanta Battisti aveva incontrato le persone decisive della sua vita. Giulio e Grazia Letizia, il socio di scrittura e la futura moglie, ancor oggi divisi da una querelle sulla memoria e sui diritti di edizione del cantautore di Poggio Bustone. Che era un“cantautore ”, appunto, ma atipico. Un genio che metteva a soqquadro i frusti cliché del pop italiano d’antan, a patto che le sue trovate musicali fossero ornate dalle parole di un poeta.

Così che ci siamo ritrovati a cantare di colline di ciliegi e giardini di marzo, di emozioni e acque azzurre senza troppo notare che eravamo stati ipnotizzat­i dall’altra testa di quel mostro bicefalo: Mogol, l’incursore lirico nella coscienza collettiva del Paese. Immagini, quelle di Giulio, radicate nel subconscio di tre generazion­i, e ce ne ricordiamo ogni 29 settembre, senza sapere che quello era un pezzo in cui Mogol, fautore del libero amore, chiedeva perdono alla moglie nel giorno del compleanno, dopo una scappatell­a. Ma Battisti, il demiurgo delle note, che degli intrighi mogoliani si era fatto portavoce, non poteva restare ingabbiato a vita nei lampi narrativi del socio. Doveva rompere il sodalizio, Lucio, a ogni costo. Nell’ultima intervista del ’79 dichiarò: “Non parlerò più. L’artista non esiste. Esiste la sua arte”. Una portentosa dichiarazi­one d’intenti: Battisti si smateriali­zzava dietro la propria musica.

SI DIMENTICAS­SERO il compagnone, il giovinotto allegro che si sbellicava ruminando le barzellett­e su Pappagone nel backstage con la Formula Tre. Che non si azzardasse­ro a tentarlo con offerte per farlo tornare in scena: ancora nel ’73, Agnelli gli aveva offerto uno o due miliardi per un concerto a Torino. Lucio non ci teneva a indossare il costume il giullare di corte di fronte al Re dell’Economia e lo mandò a farsi fottere, così come avrebbe fatto 16 anni dopo con Berlusconi, che lo voleva ospite al Festivalba­r e di miliardi gliene offriva tre. Lucio l’elusivo. Lucio che spariva: lui e Grazia Letizia nel ’76 se ne andarono da Milano dopo un misterioso episodio in cui al parco la baby sitter avrebbe sventato il rapimento del figlio Luca. Ipotizzaro­no ci fosse di mezzo l’Anonima Sequestri, ma la vedova Battisti bolla la storia come una frottola, sottolinea­ndo, ancora oggi, come certi giornali avessero messo su un falso scoop, e che il trasferime­nto a Londra fosse dovuto alla necessità di far studiare il bimbo in una scuola inglese, e naturalmen­te per affacciars­i sul mercato discografi­co internazio­nale. Eppure, sostiene Mogol, ben prima di quel periodo Battisti aveva rifiutato un faraonico contratto sotto l’ala dei Beatles per una percentual­e ai produttori giudicata esosa.

Lucio l’ingombrant­e, Lucio l’inafferrab­ile. Lo bollarono come Fascioqual­unquista per un fermo immagine in tv dove pareva facesse il saluto romano, e invece dava il la agli orchestral­i. Sussurrava­no che finanziass­e Ordine Nuovo, ma in famiglia giurano se ne fregasse della politica, e semmai interpelli­no Mogol il rosso, che si era fatto equivocare con i versi sui boschi di braccia tese, e su quel canto libero adottato come un inno nei Campi Hobbit. I neri rivendicav­ano un pezzetto della tessera di Battisti, ma la collezione dei suoi vinili fu trovata dai carabinier­i di Dalla Chiesa nel covo Br di Via Montenevos­o, un mese dopo l’assassinio di Moro. Perché tutti erano entrati nella cantina buia dove noi. E pochi, dopo, sarebbero invece riusciti a inoltrarsi nei labirinti verbali di Pasquale Panella, l’Altro Socio, che giocava sui calembour con perfida ed estenuante raffinatez­za.

MA È LÌ, nei cinque dischi che vanno da Don Giovanni a Hegel, che dobbiamo investigar­e più a fondo per misurare la reale grandezza di Battisti. Che nel periodo di transizion­e tra Mogol e Panella aveva voltato la nuca al passato e rivolto lo sguardo al futuro, come un Giano dispettoso ma consapevol­e dei suoi diritti d’artista. Quel disco si intitolava E già, i testi scritti con la moglie e le foto dell’album che parevano un manifesto programmat­ico, scattate su una spiaggia della Cornovagli­a, il volto dell’ectoplasma Lucio negato da un lampo di luce in uno specchio. Subito dopo, nei cinque dischi con Panella, possiamo cogliere l’intuizione definitiva di Giano-Battisti: che rinunciò alla compagnia degli altri musicisti per affidarsi ai suoni di un computer, inventando la techno all’italiana, il minimal-elettropop europeista, e indicando un sentiero rap che i miseri epigoni odierni non hanno più saputo percorrere. Eppure era lì. In canzoni temerarie, di abbacinant­e insolenza, che nessuno può cantare, di cui nessuno cita un verso. Il paradosso di Battisti che si liberava da se stesso, dopo essere stato plebiscita­riamente amato con Mogol. Lucio che si era ritirato nella tana degli amori domestici. Dove con Grazia Letizia divoravano libri e li commentava­no, perché lui non aveva avuto tempo di laurearsi. Lo appassiona­vano i tomi di poesia. E i filosofi. Su tutti, Hegel.

1979, L’ULTIMA INTERVISTA Dichiarò: “Non parlerò più L’artista non esiste. Esiste la sua arte”. E da lì rispettò fino in fondo il suo credo

DUE “COSTOSI” RIFIUTI

Nel 1973 Agnelli gli offrì due miliardi per un concerto a Torino; negli Anni ’ 80 B. arrivò a tre per il Festivalba­r

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Da metà degli anni Sessanta è assoluto protagonis­ta della scena musicale
Ansa Pensieri e parole Da metà degli anni Sessanta è assoluto protagonis­ta della scena musicale

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