Le cure anti-tumori che minano la sanità
antitumorali sono di 2 tipi: a bersaglio molecolare e immunoterapici . Di 68 medicine autorizzate in Ue tra il 2009 e il 2013 solo il 35% prolunga la sopravvivenza
Le terapie innovative mettono a rischio l’equilibrio contabile dei servizi sanitari nazionali e spesso non sono così efficaci. Allarme Oms: “C’è un lucro ingiustificato”. Sileri: “Serve più trasparenza”
Icosti allucinanti dei farmaci di ultima generazione, soprattutto per il cancro e le malattie rare, stanno minando la sostenibilità dei sistemi sanitari a livello planetario. Facendo crescere l’apprensione dell’Organizzazione mondiale della sanità, che in un report di dicembre ha evidenziato come i prezzi esorbitanti dei farmaci oncologici non siano giustificati dai costi di ricerca e sviluppo sostenuti dalle aziende produttrici (per ogni dollaro investito c’è un guadagno medio di 14,50 dollari), ma dipendono dall’abilità dell’impresa di massimizzare i profitti. Negli Stati Uniti il costo medio annuo di un trattamento anticancro nel 2000 era di 10mila dollari, nel 2014 più di 100mila. Fino ai 475mila di oggi per le Car–T, terapie rivoluzionarie che usano le cellule del paziente modificate geneticamente per distruggere quelle tumorali.
In Italia la spesa per gli antitumorali è salita da 3,3 miliardi di euro nel 2012 a più di 5,6 miliardi nel 2018. “Se non si cambiano le regole del gioco – avvisa il direttore dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa), Luca Li Bassi – le spese diventeranno proibitive”. Il nuovo costa di più, ma non sempre è meglio del vecchio. Dal 2006 Aifa ha previsto, per alcuni farmaci ad alto costo o approvati con incertezze, accordi basati sui risultati (per offrirli rapidamente ai malati senza cura): le aziende devono rimborsare chi non risponde al trattamento. Un meccanismo virtuoso “un po’ abbandonato negli ultimi anni e che sicuramente verrà incrementato” assicura dagli uffici dell’Aifa. I primi di agosto è stato applicato alla prima terapia a base di Car–T in Italia (circa 300mila euro a paziente).
Rimedi cari e inefficaci Secondo uno studio pubblicato nel 2017 sul British me
dical journal, di 68 farmaci oncologici autorizzati d a ll ’ Agenzia europea del farmaco (Ema) tra il 2009 e il 2013 appena il 35 per cento ha dimostrato di prolungare la sopravvivenza (di tre mesi) e il 10 per cento di migliorare la qualità della vita al momento dell’approvazione. E dopo 5 anni sul mercato poco più della metà è risultato più efficace delle molecole precedenti o dell’effetto placebo. Un altro lavoro, uscito il 10 luglio sul British medical journal, spiega che l’Agenzia tedesca per la valutazione dei medicinali ha rilevato l’assenza di benefici aggiunti in 125 dei 216 nuovi farmaci (di cui 82 oncologici) entrati in Germania tra il 2011 e il 2017. “L’innovazione tra i nuovi farmaci è limitata e difficile da riconoscere, il che alimenta false speranze. Bisogna chiedersi perché, non far finta di niente – va dritto al sodo Luca Li Bassi –. Al momento dell’autorizzazione si valuta il beneficio della nuova molecola sulla base di dati limitati. Le aziende produttrici presentano all’Ema solo gli studi secondo loro più appropriati a provare efficacia e sicurezza. Non ci sono controlli da parte de ll ’ autorità e non c’è la possibilità di avere accesso a tutte le informazioni necessarie su rischi e benefici. In alcuni casi sappiamo già che gli studi sono pochi e incompleti, per i farmaci orfani per esempio, quelli cioè per le malattie rare essendo difficile reclutare i pazienti. O per i biologici, ottenuti da sostanze viventi che colpiscono direttamente le cellule malate, perché si sa ancora poco dello sviluppo della malattia. E, in assenza di test solidi, capita che vengano prescritti anche a pazienti sbagliati”. Uno studio italiano del 2013 ha dimostrato che un farmaco biologico per il tumore al polmone funzionava solo sui soggetti con la mutazione del gene Egfr (il 10 per cento di tutti i casi). Sugli altri è stata osservata una sopravvivenza media al trattamento di 5,4 mesi, inferiore a quella dei pazienti trattati con chemioterapia (8,2 mesi). E una possibilità di regressione del tumore del 2%. Con la chemio del 14. “Dobbiamo pretendere l’obbligo di studi comparativi di superiorità prima dell’immissione in commercio – continua Li Bassi –, non bastano quelli sull’equivalenza o non inferiorità rispetto alle vecchie molecole. E decisivo è il contributo degli enti di ricerca indipendenti”. Oggi a finanziare il percorso che porta a una conoscenza completa delle nuove terapie è il Servizio sanitario nazionale: “Lo Stato acquista e somministra questi medicinali scoprendo in certi casi che sono inutili. Potremmo risparmiare qualche anno di rimborsi se l’azienda completasse test clinici più esaustivi”, chiosa Li Bassi. Speranze “di precisione” Ci sono due grandi categorie di farmaci antitumorali innovativi: a bersaglio molecolare e gli immunoterapici ( che usano il sistema immunitario per sconfiggere la malattia). Entrambi hanno spalancato la porta alla medicina di precisione, che considera ciascun tumore unico, classificandolo non più in base alla zona dell’organismo ma rispetto alla mutazione del dna e dei geni coinvolti. I medici vedono il bicchiere mezzo pieno, ma non sono meno preoccupati. Stefania Gori, direttore dell’Oncologia de ll’ospedale Sacro Cuore–Don Calabria di Negrar ( Verona) e presidente dell’Associazione italiana di oncologia medica, avverte sulla necessità “di accedere ai dati complessivi sui benefici e i livelli di tossicità dei farmaci ad alto costo registrati dai clinici nelle schede di monitoraggio inviate ad Aifa per capire quanto si discostano da quelli delle aziende e selezionare le cure migliori e le categorie di pazienti a cui sottoporle, evitando grossi sprechi”.
La stessa Aifa ci fa sapere che possiede “una miniera di dati” ma che “per carenza di personale non è riuscita ancora a rielaborare”. “Con
IN ONCOLOGIA PER UN DOLLARO SPESO IN RICERCA E SVILUPPO BIG PHARMA
NE GUADAGNA 14,5. SECONDO L’ONU I PRIVATI TRAGGONO PROFITTI ENORMI ADANNO DELLE COMUNITÀ NAZIONALI
poche informazioni facciamo fatica a individuare le tipologie di pazienti idonei a queste terapie – d ichi ara Gori – Inevitabilmente dunque li somministriamo anche a chi non può trarne vantaggio”. “Se gli studi clinici per l’approvazione del farmaco sono un punto di arrivo per le aziende, per noi sono soltanto l’inizio – incalza Massimo Di Maio, professore di Oncologia all’università di Torino e responsabile dell’O n c o lo g i a all’ospedale Mauriziano del capoluogo piemontese – Il campione è molto selezionato, sono escluse di solito le persone anziane e con più patologie. Il mondo reale però è molto più complesso: chi ha il cancro può essere cardiopatico e diabetico e avere più di 75 anni. Quindi le aspettative di successo del farmaco si riducono”.
Gli “allungavita”
Ciò nonostante molti dei nuovi farmaci hanno dato risultati straordinari. “Grazie all’immu noterapia – spiega Di Maio – il melanoma può essere tenuto sotto controllo, mentre un tempo con la chemioterapia l’aspettativa di vita era di pochi mesi, e il 20–30% di chi ha un carcinoma al polmone in stadio avanzato è ancora vivo 5 anni dopo averlo scoperto contro il 5% di una volta. Per merito delle terapie a bersaglio molecolare, invece, le donne con un tumore al seno causato da ll’alterazione del gene Her2 guariscono più facilmente”.
La spesa in crescita per gli antitumorali, fa notare Giovanni Apolone, direttore scientifico dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano, “è in parte dovuta anche all’aumento della prevalenza di pazienti con storia di cancro: 3,4 milioni nel 2018 rispetto ai 2,2 milioni nel 2006. E al maggior numero di guarigioni e farmaci usati per singolo paziente. Tanto che 20 anni fa era vivo a 5 anni dalla diagnosi il 40% dei malati, oggi il 60. Ma – insiste – questo non giustifica i prezzi alti dei medicinali. Non conoscendo i biomarcatori, cioè le modificazioni genetiche correlate alla neoplasia, dei pazienti adatti alla cura, dovremmo trattare tutti senza sapere come potranno reagire. L’i n d ustria ha fretta di produrre e non ha interesse che vengano identificati, ma noi ne abbiamo bisogno”.
Giorgio Scagliotti, direttore del dipartimento di Oncologia all’Università di Torino e primo oncologo italiano presidente dello Iaslc ( International association for the study of lung cancer), la società scientifica internazionale per lo studio del tumore del polmone, sostiene che l’unica via per assicurare la sostenibilità dei sistemi sanitari sia proprio “l’implementazione della medicina di precisione”.
Attraverso “lo sviluppo di test diagnostici per definire il sottogruppo di pazienti che per le loro caratteristiche biologiche sono in grado di trarre più benefici dai trattamenti innovativi”. “Resta un dovere introdurre anche i nuovi farmaci per le malattie rare benché suffragati da studi incompleti – conclude Scagliotti – r iguardando alterazioni genomiche pochissimo diffuse non potranno mai contare su un largo campione”.
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