Zen Circus: “Altro che fama, noi restiamo artisti di strada”
Il gruppo musicale pubblica un libro “di educazione generazionale”: tra viaggi, G8, 11 settembre, droga, alienazione e il desiderio di esprimere la propria arte
Da vent’anni sgommano in giro per le strade del Belpaese con un furgoncino. Si sono abituati a suonare ovunque ci sia uno spiazzo; improvvisano, sempre. Cosa abbia spinto Appino, Karim e Ufo – voce, chitarra e basso degli Zen Circus – a pubblicare una autobiografia con l’aiuto dell’autore Marco Amerighi è un mistero. Eppure, pagina dopo pagina, emerge senza fronzoli la fatica di portare avanti con tenacia un progetto nato dall’urgenza di esprimersi e suonare - senza troppa accademia -, perché si parte come tutti i gruppi punk-rock, senza background. In mezzo alla storia delle persone coinvolte tra amici, famiglia e relazioni sentimentali – in una provincia tra Livorno e Pisa – c’è la droga, l’alienazione, lo sfruttamento e la ricerca di se stessi oltre all’a ll e g ri a spensierata di tre veri amici. Si parte dai diciotto anni di Appino, “nato per subire”, ai tragici fatti del G8 di Genova (“l’evento più vergognoso della nostra generazione”), sino all’incontro con l’idolo, Brian Ritchie dei Violent Femmes: tutto raccontato come un flusso di coscienza. Un libro crudo, un romanzo pieno di male di vivere e voglia di farcela. Gli Zen Circus lo presentano domani a Torino, il 12 a Bologna e poi in altre 12 città per concludere a Milano l’11 novembre.
Ufo, quanto c’è di vero e quanto di inventato in “Andate tutti a fanculo”? Questo è un romanzo anti-biografico: c’è del plausibile e dell’impossibile. Paradossalmente le cose più assurde sono quelle più sincere, realmente accadute. Marco Amerighi ha messo in ordine la timeline e ha dato un filo unitario ai nostri racconti con alcuni innesti suoi. A noi non interessava tanto la biografia canonica ma un racconto vero e proprio con un approccio diverso.
È uno spaccato di vita e di fatica di vivere.
È incentrato soprattutto ai nostri esordi, volevamo un romanzo di formazione, di educazione sentimentale. In questo modo più di uno riuscirà a immedesimarsi.
Ci sono temi come il G8 e l’11 settembre: quasi da romanzo generazionale. Descriviamo il Paese, come si vive e spesso si vive male. C’è anche molta poesia, come quando raccontate di essere saliti su un ciliegio per vedere il mare.
È accaduto veramente. È stato un grande gaudio collettivo. Il poetico viene fuori quasi involontariamente nonostante le nostre follie.
Ne uscite come l os er c ostruttivi, vi ci riconoscete nella formula?
Sì, i nostri primi momenti non sono stati certo picareschi, ma siamo riusciti a portare la nostra immaginazione sui palchi.
Perché avete cambiato il nome di alcuni personaggi, come “Tes ch io” in “O sso”?
È andata così, non ci sono vere e proprie ragioni. Forse è stata una forma di pudore, dato che alcune cose scritte nel libro sono abbastanza scabrose. Abbiamo tenuto nascosto molto poco…
Cosa lascerà al lettore il romanzo?
Per noi è un po’ come fare il punto. Sicuramente ci piacerebbe lasciare al lettore la nostra visione del mondo, la nostra cultura di busker.
Avete vinto ma rinunciando a tutto il resto.
Abbiamo tenuto duro con grande tenacia e testardaggine e una dose di incoscienza. La musica non è stata per noi il sogno di farcela e raggiungere chissà quali obbiettivi ma l’urgenza di esprimerci con cocciutaggine.
Alla fine del libro uno pensa: “di sicuro non l’hanno fatto per i soldi”.
No, sicuramente (ride). Sono certo che tante persone mi diranno “ma chi te l’ha fatto fare?”.