PD-M5S, UN’ALLEANZA CHE MUTA LA POLITICA
Èprobabile che la mossa di Renzi, la sua giravolta, il colpo di teatro con il quale ha aperto ai “nemici” del M5S siano stati decisivi nel convincere Zingaretti, originariamente orientato di suo ad andare a un confronto elettorale con l’idea di mettersi alla testa di un fronte democratico ed europeista antagonista alla destra a guida Salvini.
DOPO IL SORPASSO del Pd ai 5Stelle alle Europee la scommessa che fosse Zingaretti a capeggiare quel fronte e dunque a trarre vantaggio dalla polarizzazione degli elettori ostili a consegnare il Paese a Salvini aveva una sua plausibilità. Quel che è sicuro è che l’uscita di Renzi rispondeva a un calcolo personale, all’esigenza di prendere tempo per dare corso ai suoi disegni. Lo dimostrano non solo la circostanza che la prospettiva di una sua fuoriuscita dal Pd non sia mai stata e non sia tuttora risolutamente smentita, ma, prima ancora, il fatto che la sua proposta fosse non già quella di un governo Pd-M5S di legislatura sostenuto da un’a lleanza politica di carattere strategico, ma un governo di corto respiro concepito solo per differire di alcuni mesi le elezioni.
Pur, ripeto, dapprima riluttante, Zingaretti – ispirato anche da Bettini e Franceschini – ha accettato l’idea del governo giallorosso, ma reinterpretandola e ritrascrivendola nell’orizzonte più impegnativo di un’alleanza politica strategica. Dalla quale coerentemente scaturisce la proposta di un dialogo e una cooperazione anche sul territorio. Ovviamente, non come diktat dal centro, non come un automatismo. Nel rispetto dell’autonomia politica dei livelli locali. Ma, quantomeno, impegnando i referenti territoriali a prendere in considerazione uno schema di alleanze praticato a livello nazionale. Dal punto di vista di Zingaretti, solo così – come scommessa alta e strategica – acquista senso e valore la sua “conversione” a una prospettiva che, sulle prime, non era la sua.
Ma vi sono ragioni a sostegno di essa che dovrebbero valere per entrambi i partner. È innegabile che la svolta che ha condotto al Conte 2 sia stata brusca, improvvisata, condizionata nei tempi e nei modi da uno stato di necessità. Come testimoniano l’inadeguato approfondimento delle convergenze (e delle divergenze) programmatiche, la fatica nell’accordo sugli organigrammi, diciamolo pure un clima di reciproca diffidenza che ancora mina i rapporti personali e politici tra i protagonisti. E tuttavia il nuovo governo, giudicato sino a ieri improbabile, rappresenta una opportunità solo se concepito in quell’ottica politicamente impegnativa e di respiro. Telegraficamente: serve a fare ora quell’approfondimento e quelle verifiche che non si sono fatti dentro la stretta temporale della crisi (Prodi evocò il modello tedesco, nel quale però cristiano-democratici e socialisti impegnarono mesi per concordare un programma comune); serve a smentire si tratti di mero matrimonio di interesse stretto solo per scongiurare il voto e per “pa ur a” di Salvini; serve per iscrivere l’azione di governo dentro una visione condivisa, una idea del futuro, dopo la certificazione dell’in congruenza dello strumento privatistico del “contratto di governo”, che conteneva il germe della propria dissoluzione (e una sommatoria di distinte promesse finanziariamente insostenibili); soprattutto serve per fare del governo il laboratorio di una positiva evoluzione del sistema politico, per passare dal tripolarismo, foriero di instabilità e di trasformismo, a una sana democrazia competitiva lungo l’asse destra- sinistra che, a dispetto di certa retorica, esistono eccome.
VERIFICANDOla convinzione del direttore di questo giornale e più modestamente mia, che vi sia una possibile, feconda convergenza tra la cultura politica originaria del M5S ( possiamo chiamarla “radical-democratica e ambientalista”?) e un Pd restituito al suo profilo ulivista da centrosinistra di governo nitidamente alternativo alla destra, prima della (dis)torsione identitaria impressagli da Renzi. In breve, un’esperienza di governo che, da un lato, tragga vantaggio dall’elaborazione di un orizzonte politico condiviso e che, dall’altro, in corso d’opera, contribuisca a far maturare progressivamente quell’orizzonte strategico.
Per meno di questo l’ardita operazione del Conte 2 forse non meritava e comunque non reggerebbe. Nella durata e a fronte dell’accusa di mero trasformismo. Qualcuno, forse alzando troppo l’asticella, ha evocato il Moro che, aprendo al dialogo con il Pci, sostenne che, da quel dialogo, entrambi ne sarebbero usciti arricchiti: “Qualcosa di voi deve entrare in noi e qualcosa di noi in voi”.