“Il genio è il contrappeso dell’anomalia”. Firmato Gadda
IN LIBRERIA Manie, pettegolezzi e “tumescenze barocche” dello scrittore ingegnere in sessanta saggi brevi usciti, per il “pane immediato”, su giornali e riviste tra il 1927 e il 1968
Aogni uscita di inediti o semi-inediti gaddiani segue una pioggia di recensioni tutte focalizzate sul pettegolezzo esclusivo, come se ogni volta nuove rivelazioni aprissero smagliature di fatuità caratteriale ( per lui sempre “scemità” o, dopo il periodo fiorentino, “bischerag gine”) dentro la rigorosità estrosa, ma pure gelida, dello scrittore ingegnere. E quindi: come si comportava Gadda in trattoria (prendeva in giro l’impegno da firma-appelli di Moravia e Morante, e il tono di voce troppo alto di lei); cosa pensava Gadda di Buzzati ( un “Kafka + Landolfi irrancidito… e noioso, e inconcludente, e bischero”); quante uova mangiava Gadda (dodici, o forse diciotto, secondo Ungaretti che nel ’53 fece con lui un viaggio in Spagna per il Congresso di Poesia di Salamanca). Non fa eccezione il mastodontico Divagazioni e garbuglio appena pubblicato da Adelphi a cura di Liliana Orlando, una raccolta di sessanta saggi brevi, usciti tra il 1927 e il 1968 su giornali e ri
viste, che Gadda chiamava “lavorucci da pane immediato” o “entretiens”, a dirne la poca importanza.
ANCHE QUI si attinge a piene mani a giacimenti di manie e idiosincrasie del burbero capitano in congedo, sottoposto all’imperio dei rumori, alle persecuzioni degli editori, ai tormenti del fisco e all’insopportabile contiguità col prossimo; ma particolare riguardo è riservato alla notazione che questi lavori torm e nt o s a m en t e elaborati che sembrano scritti “con la “m i t r ag li at r ic e ” e con un rigore stilistico che lo portava a interrogare, per una più esatta aderenza al vero, “filologi, brigadieri, sarte, trippai, oculisti, agronomi”, fossero etichettati al tempo come esempi di “tumescenza barocca” (“Gadda ha la mano pesande, la mano pesande”, diceva Benedetto Croce, secondo Gadda che gli rifaceva il verso), e che più di un direttore di quotidiano recalcitrò a pubblicarli, nonostante le raccomandazioni eccellenti di Montale e Bonsanti, o chiese all’autore di ricondurre la sua scrittura prorompente e “ingarbugliata” entro i binari di quelle “tre sole ideuzze” che il lettore medio voleva ritrovarsi scodellate in pagina, “in una lingua da famiglia Brambilla a tàvola” (da qui il giudizio su Buzzati che invece furoreggiava sul “magno Corriere”, chimera professionale a lui interdetta, chissà se per azione, come sospettava dolorosamente, dell’amico Montale).
In questo scrigno ponderoso, Gadda appare un oggetto strano, attraente, sommerso, come certe concrezioni marine secondo Shakespeare, e finalmente appare quanto bellissimamente screziato sia stato il contributo dei suoi saggi semi-negletti al “lingotto della tradizione italiana”, un caleidoscopio inarrivabile di trovate linguistiche, ibridazioni tra cultura classica e lessici popolari, linguaggio tecnico-scientifico, idioletto.
La chiave del mistero della non popolarità di Gadda fra i contemporanei, che forse è più un semplice dilemma da rasoio di Occam ( Gadda è troppo abissale per essere apprezzato dall’intellettuale italiano mediamente acculturato), è in uno dei saggi qui raccolti, intitolato “I grandi uomini”, uscito su Letteratura nel 1950. Il “caratterino di Dante”, la grandezza dubitativa di Einstein, la sagacia a imbuto di Proust, l’acume clinico di Freud: tutti i grandi uomini del passato hanno per Gadda un tratto in comune: che in loro “gli ingorghi nevrotici dell’attività bio-psichica risultano più frequenti e più gravi che non quelli dei comuni nevropatici, cioè dei comuni mortali… Il genio è contrappeso dell’anomalia”. Così “Leopardi che esige sorbetti alle tre di notte dall’ospite Ranieri” non è un pettegolezzo, ma una misura del contrappeso fisiologico della portata inusitata, della mole di Leopardi nel mondo.
Anche al tempo di Gadda si preferiva sparlare della sua bulimia (sempre da lui negata), della sua nevropatia da pigro e valetudinario, per non rendere conto del suo metodo creativo: un misto perfetto di genio e rigore con cui scandaglia tutti gli anfratti sommersi della lingua, rivendicando in questa sua ricerca di una “gnosi propria” la “libertà làlica del primitivo, del bambino, del dissociato psichico”.
Caleidoscopio Fu un maestro (impopolare all’epoca) di trovate linguistiche e ibridazioni