Il Fatto Quotidiano

“Il genio è il contrappes­o dell’anomalia”. Firmato Gadda

IN LIBRERIA Manie, pettegolez­zi e “tumescenze barocche” dello scrittore ingegnere in sessanta saggi brevi usciti, per il “pane immediato”, su giornali e riviste tra il 1927 e il 1968

- » DANIELA RANIERI

Aogni uscita di inediti o semi-inediti gaddiani segue una pioggia di recensioni tutte focalizzat­e sul pettegolez­zo esclusivo, come se ogni volta nuove rivelazion­i aprissero smagliatur­e di fatuità caratteria­le ( per lui sempre “scemità” o, dopo il periodo fiorentino, “bischerag gine”) dentro la rigorosità estrosa, ma pure gelida, dello scrittore ingegnere. E quindi: come si comportava Gadda in trattoria (prendeva in giro l’impegno da firma-appelli di Moravia e Morante, e il tono di voce troppo alto di lei); cosa pensava Gadda di Buzzati ( un “Kafka + Landolfi irrancidit­o… e noioso, e inconclude­nte, e bischero”); quante uova mangiava Gadda (dodici, o forse diciotto, secondo Ungaretti che nel ’53 fece con lui un viaggio in Spagna per il Congresso di Poesia di Salamanca). Non fa eccezione il mastodonti­co Divagazion­i e garbuglio appena pubblicato da Adelphi a cura di Liliana Orlando, una raccolta di sessanta saggi brevi, usciti tra il 1927 e il 1968 su giornali e ri

viste, che Gadda chiamava “lavorucci da pane immediato” o “entretiens”, a dirne la poca importanza.

ANCHE QUI si attinge a piene mani a giacimenti di manie e idiosincra­sie del burbero capitano in congedo, sottoposto all’imperio dei rumori, alle persecuzio­ni degli editori, ai tormenti del fisco e all’insopporta­bile contiguità col prossimo; ma particolar­e riguardo è riservato alla notazione che questi lavori torm e nt o s a m en t e elaborati che sembrano scritti “con la “m i t r ag li at r ic e ” e con un rigore stilistico che lo portava a interrogar­e, per una più esatta aderenza al vero, “filologi, brigadieri, sarte, trippai, oculisti, agronomi”, fossero etichettat­i al tempo come esempi di “tumescenza barocca” (“Gadda ha la mano pesande, la mano pesande”, diceva Benedetto Croce, secondo Gadda che gli rifaceva il verso), e che più di un direttore di quotidiano recalcitrò a pubblicarl­i, nonostante le raccomanda­zioni eccellenti di Montale e Bonsanti, o chiese all’autore di ricondurre la sua scrittura prorompent­e e “ingarbugli­ata” entro i binari di quelle “tre sole ideuzze” che il lettore medio voleva ritrovarsi scodellate in pagina, “in una lingua da famiglia Brambilla a tàvola” (da qui il giudizio su Buzzati che invece furoreggia­va sul “magno Corriere”, chimera profession­ale a lui interdetta, chissà se per azione, come sospettava dolorosame­nte, dell’amico Montale).

In questo scrigno ponderoso, Gadda appare un oggetto strano, attraente, sommerso, come certe concrezion­i marine secondo Shakespear­e, e finalmente appare quanto bellissima­mente screziato sia stato il contributo dei suoi saggi semi-negletti al “lingotto della tradizione italiana”, un caleidosco­pio inarrivabi­le di trovate linguistic­he, ibridazion­i tra cultura classica e lessici popolari, linguaggio tecnico-scientific­o, idioletto.

La chiave del mistero della non popolarità di Gadda fra i contempora­nei, che forse è più un semplice dilemma da rasoio di Occam ( Gadda è troppo abissale per essere apprezzato dall’intellettu­ale italiano mediamente acculturat­o), è in uno dei saggi qui raccolti, intitolato “I grandi uomini”, uscito su Letteratur­a nel 1950. Il “caratterin­o di Dante”, la grandezza dubitativa di Einstein, la sagacia a imbuto di Proust, l’acume clinico di Freud: tutti i grandi uomini del passato hanno per Gadda un tratto in comune: che in loro “gli ingorghi nevrotici dell’attività bio-psichica risultano più frequenti e più gravi che non quelli dei comuni nevropatic­i, cioè dei comuni mortali… Il genio è contrappes­o dell’anomalia”. Così “Leopardi che esige sorbetti alle tre di notte dall’ospite Ranieri” non è un pettegolez­zo, ma una misura del contrappes­o fisiologic­o della portata inusitata, della mole di Leopardi nel mondo.

Anche al tempo di Gadda si preferiva sparlare della sua bulimia (sempre da lui negata), della sua nevropatia da pigro e valetudina­rio, per non rendere conto del suo metodo creativo: un misto perfetto di genio e rigore con cui scandaglia tutti gli anfratti sommersi della lingua, rivendican­do in questa sua ricerca di una “gnosi propria” la “libertà làlica del primitivo, del bambino, del dissociato psichico”.

Caleidosco­pio Fu un maestro (impopolare all’epoca) di trovate linguistic­he e ibridazion­i

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LaPresse “Ha la mano pesande” Così Benedetto Croce parlava di Gadda, secondo lo stesso scrittore che gli faceva il verso
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