Il Paradiso di Elia, il Satyricon sguaiato e i tesori d’Arabia
Il paradiso probabilmente Elia Suleiman
Dieci anni dopo l’acclamato Il tempo che ci rimane, qualcosa è cambiato. Ispirandosi ai diari del padre Fuad e alle lettere della madre ai parenti in esilio, là inquadrava l’indifferenza giovanile, l’attivismo politico della maturità e la successiva osservazione senza parole, qui passa il confine e allarga il campo d’azione. Allo specchio c’è sempre lui, ma stavolta le apparenze ingannano, perché Elia Suleiman scappa dalla Palestina solo per accorgersi che la Palestina è ovunque.
DA PARIGI a New York, qualcosa, qualcuno gli ricorda sempre la madrepatria, e viene il dubbio: e se la Palestina anzichè indicazione geografica, e non solo, tipica fosse una costante sociopolitica, un continuum antropologico, una condizione dello spirito? Se il silenzio è assenso, siamo a cavallo, perché il regista e sceneggiatore si ritaglia da attore il ruolo del testimone ammutolito dalle brutture del mondo: Jacques Tati vive e lotta con lui, ma lo slapstick che fu oggi trova, più che il linguaggio, l’afasia del corpo e la liofilizzazione delle gag. In Concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove ha ottenuto la menzione della giuria, Il paradiso probabil
mente ( It Must Be Heaven) mette al minimo, con inquadrature fisse, e sovverte, con il protagonista che guarda sovente in camera, il dispositivo cinematografico per concentrarsi sul dispositivo retorico: la figura è la sineddoche, il tutto per la parte. Tutto il mondo è Palestina, tutto il mondo è a immagine e somiglianza della Nazareth in cui Suleiman è nato il 28 luglio del 1960. Che siano i poliziotti sui pattini o il Segway nella Ville Lumière oppure i newyorkesi armati fino ai denti, l’inversione è servita e debitamente coreografata: dalla Palestina microcosmo per il mondo al mondo microcosmo per la Palestina, e chissà che l’espediente artistico di Suleiman non sia il mero precipitato della realtà. Non è un film di pronta beva,
Il paradiso probabilmente, ovvero lo si può trangugiare come se nulla fosse, ma è la meditazione che lo eleva a potenza, il retrogusto che ne rivela l’amarezza, la rabbia stilizzata, il contenimento mancato.
GIÀ, IN QUALCHEs equenza
l’esule Suleiman tradisce la frustrazione e abbandona l’aplomb, appesantendo la silhouette abitualmente snella del suo cinema: gli americani iper-armati non avrebbero sfigurato nelle comiche di Benny Hill, né i produttori francesi che lo snobbano o, peggio, gli cassano il
Da Parigi a New York, qualcosa e qualcuno gli ricordano la terra natia
progetto perché “poco palestinese” si smarcano dal didascalismo. Ma sono peccati veniali, conseguenza e non causa del troppo tempo passato in purgatorio: palestinese esule, cineasta apolide, Suleiman dinanzi al Paradiso non potrà che attendere, al più ironizzare. Lo fa, barattando la commedia degli orrori che lo stato dell’arte vorrebbe con la commedia degli errori che l’arte può concedersi: il Cinema, probabilmente. Dal 5 dicembre in sala, si sorride. A denti stretti.