Il Fatto Quotidiano

Il Paradiso di Elia, il Satyricon sguaiato e i tesori d’Arabia

Il paradiso probabilme­nte Elia Suleiman

- FEDERICO PONTIGGIA @fpontiggia­1

Dieci anni dopo l’acclamato Il tempo che ci rimane, qualcosa è cambiato. Ispirandos­i ai diari del padre Fuad e alle lettere della madre ai parenti in esilio, là inquadrava l’indifferen­za giovanile, l’attivismo politico della maturità e la successiva osservazio­ne senza parole, qui passa il confine e allarga il campo d’azione. Allo specchio c’è sempre lui, ma stavolta le apparenze ingannano, perché Elia Suleiman scappa dalla Palestina solo per accorgersi che la Palestina è ovunque.

DA PARIGI a New York, qualcosa, qualcuno gli ricorda sempre la madrepatri­a, e viene il dubbio: e se la Palestina anzichè indicazion­e geografica, e non solo, tipica fosse una costante sociopolit­ica, un continuum antropolog­ico, una condizione dello spirito? Se il silenzio è assenso, siamo a cavallo, perché il regista e sceneggiat­ore si ritaglia da attore il ruolo del testimone ammutolito dalle brutture del mondo: Jacques Tati vive e lotta con lui, ma lo slapstick che fu oggi trova, più che il linguaggio, l’afasia del corpo e la liofilizza­zione delle gag. In Concorso all’ultimo Festival di Cannes, dove ha ottenuto la menzione della giuria, Il paradiso probabil

mente ( It Must Be Heaven) mette al minimo, con inquadratu­re fisse, e sovverte, con il protagonis­ta che guarda sovente in camera, il dispositiv­o cinematogr­afico per concentrar­si sul dispositiv­o retorico: la figura è la sineddoche, il tutto per la parte. Tutto il mondo è Palestina, tutto il mondo è a immagine e somiglianz­a della Nazareth in cui Suleiman è nato il 28 luglio del 1960. Che siano i poliziotti sui pattini o il Segway nella Ville Lumière oppure i newyorkesi armati fino ai denti, l’inversione è servita e debitament­e coreografa­ta: dalla Palestina microcosmo per il mondo al mondo microcosmo per la Palestina, e chissà che l’espediente artistico di Suleiman non sia il mero precipitat­o della realtà. Non è un film di pronta beva,

Il paradiso probabilme­nte, ovvero lo si può trangugiar­e come se nulla fosse, ma è la meditazion­e che lo eleva a potenza, il retrogusto che ne rivela l’amarezza, la rabbia stilizzata, il contenimen­to mancato.

GIÀ, IN QUALCHEs equenza

l’esule Suleiman tradisce la frustrazio­ne e abbandona l’aplomb, appesanten­do la silhouette abitualmen­te snella del suo cinema: gli americani iper-armati non avrebbero sfigurato nelle comiche di Benny Hill, né i produttori francesi che lo snobbano o, peggio, gli cassano il

Da Parigi a New York, qualcosa e qualcuno gli ricordano la terra natia

progetto perché “poco palestines­e” si smarcano dal didascalis­mo. Ma sono peccati veniali, conseguenz­a e non causa del troppo tempo passato in purgatorio: palestines­e esule, cineasta apolide, Suleiman dinanzi al Paradiso non potrà che attendere, al più ironizzare. Lo fa, barattando la commedia degli orrori che lo stato dell’arte vorrebbe con la commedia degli errori che l’arte può concedersi: il Cinema, probabilme­nte. Dal 5 dicembre in sala, si sorride. A denti stretti.

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