Clima, pochi stati rispettano gli impegni
Nonostante i continui vertici sul clima – si apre proprio oggi a Madrid, la Conferenza del l’Onu sui cambiamenti climatici, la Cop25 -, nonostante i dibattiti, gli scioperi, le svolte green delle aziende, i comportamenti più virtuosi dei singoli, le dichiarazioni dei politici ai vari summit climatici, la realtà è brutale: le emissioni dei gas serra continuano inesorabilmente a crescere, anzi hanno toccato il loro picco massimo degli ultimi 800.000 anni. In altre parole, il nostro continua ad essere un comportamento business as usual, la definizione che gli scienziati climatologi usano nelle loro proiezioni per indicare scenari nei quali nessun intervento di contrasto al cambiamento climatico viene fatto. Il che significa, per il pianeta e per noi, ondate di calore, stress idrico, innalzamento del livello del mare, danno agli ecosistemi marini e terrestri. E la causa principale di tutto ciò è soprattutto una: l'uso dei combustibili fossili.
A METTERE nero su bianco questo dato sono due rapporti scientifici usciti in questi giorni: il Greenhouse Gas Bulletin, redatto dall’Organizzazione Metereologica Mondiale (Wmo) e l’Em ission Gap Report 2019, a cura dell’Unep (United Nations Environment Programme). Il rapporto del Wmo riguarda non solo il totale delle emissioni – che hanno raggiunto il record di 55,3 giga tonnellate di CO2 nel 2018 - quanto la concentrazione dei gas nell’atmosfera, cioè quelli che restano dopo le complesse interazioni tra atmosfera, oceani, foreste e suolo (questi ultimi tre assorbono circa la metà delle emissioni). Per avere un’idea della crescita, basti pensare che la prima rilevazione fatta nel 1958 dava un risultato di 315 parti per milione di CO2, l’ultima, nel 2018, di 407,8 parti per milione, 147% del livello preindustriale.
Ma non è solo la CO2 ad aumentare. Anche le concentrazioni di metano - provenienti da agricoltura, allevamenti, fonti fossili, biomasse - hanno raggiunto i massimi livelli negli ultimi dieci anni, con un picco di 1869 parti per miliardo nel 2018 (259% dei livelli preindustriali). E poi c’è il protossido di azoto, emesso per il 60% da cause umane, tra cui fertilizzanti e processi industriali, la cui concentrazione atmosferica nel 2018 è stata di 331.1 parti per miliardo, il 123% del livello preindustriale. Gli esperti misurano anche le emissioni prodotto dal cosiddetto “Land Use Change” (LUC), quelle causate cioè dal cambio di uso di suolo: anch’esse in crescita, a causa della crescente deforestazione. “Purtroppo se pure ci sono misure importanti prese da molti stati o da singole città, movimenti dal basso e province virtuose, ai fini del cambiamento conta solo la somma totale. Non sono un catastrofista, ma ogni emissione è un’occasione persa”, spiega Massimo Tavoni, Professore del Politecnico di Milano e Direttore presso il Cmcc dello European Institute on the Economics and the Environment. E proprio la crescita delle emissioni è sempre stata la (giusta) ossessione della giovane Greta Thunberg, tra l’altro arrivata alla conferenza di Madrid in barca dagli Stati Uniti. Nell’aprile scorso, in Senato Usa, disse: “Tanta gente importante si congratula con me, ma non so di cosa si congratuli. Milioni di studenti hanno scioperato per il clima, e nulla è cambiato, le emissioni continuano come prima. La natura è interessata solo ai gas serra immessi nell’atmosfera. Le emissioni devono fermarsi”.
A certificare che gli obblighi previsti per il rispetto dell’Accordo di Parigi, che impegnava 195 paesi a contenere la temperatura ben sotto i due gradi entro il 2100, non bastano è anche il rapporto dell’Unep, l’E mission
Gap Report 2019, che misura proprio la distanza tra gli obiettivi prefissi per fermare il riscaldamento globale e la realtà attuale. Il Rapporto misura ogni anno di quanto sarebbe necessario tagliare le emissioni per limitare l’aumento delle temperature: ad oggi, per evitare un innalzamento di oltre tre gradi - 3,2 - bisognerebbe tagliare le emissioni del 7,6% ogni anno nel prossimo decennio. Per fare questo, gli impegni dei vari stati, cosiddetti Ndc ( Nationally Determined contributions) che sono al centro dell’accordo di Parigi, dovrebbero essere aumentati di almeno cinque volte se si vuole restare sotto il grado e mezzo di aumento e di tre volte per restare entro i due gradi. E gli investimenti necessari dovrebbero essere di 1600-3800 milioni di dollari tra il 2020 e il 2050. Ogni anno che passa fa aumentare il livello di sforzo necessario, e già ad oggi parliamo di obiettivi quasi impraticabili a meno di un’inversione di rotta quasi epocale.
MA QUALI sono i paesi che producono più emissioni? I paesi del G20 rappresentano il 78% per cento delle emissioni globali. Sette di loro non hanno ancora messo in atto politiche per raggiungere gli attuali Ncd: Stati Uniti, Australia, Brasile - le cui proiezioni sono state riviste a causa delle recente deforestazione – Canada, Giappone, Corea del Sud, Sudafrica. Ancora indietro sono Corea,
Indonesia, Argentina, Arabia Saudita e Turchia. La Cina, pure fortemente impegnata nel rispetto degli impegni di Parigi, resta ad oggi il più grande emettitore mondiale (ma le emissioni pro capite di un cittadino europeo sono più alte di quelle di un cinese, se si calcola il massiccio export). “C’era da aspettarsi che alcuni paesi come Cina e India, ma anche alcuni stati africani, crescessero in termini di emissioni; quello che si cerca di fare è arrivare rapidamente al picco in modo che nei prossimi anni ci siano poi consistenti riduzioni”, spiega Stefano Caserini, titolare del corso di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano. “I paesi di più antica industrializzazione devono
ALLA CONFERENZA DI PARIGI 195 STATI FISSARONO L’OBIETTIVO: TENERE SOTTO I 2 GRADI L’AUMENTO DEL CALORE . MOLTI, DA USA A CINA E BRASILE, NON SI ADEGUANO
assumersi una leadership in questa riduzione; noi europei, anche se abbiamo ridotto le emissioni, abbiamo molte più responsabilità e dobbiamo cercare di convincere gli altri paesi a venirci dietro”. Il paradosso, nota il rapporto Onu, è che le soluzioni ci sarebbero e sono sempre più a portata di mano; elettrificazione dei trasporti e decarbonizzazione dell’ec o n omia, riforestazione e arresto della deforestazione, energia solare ed eolica. Solo l’abolizione dei sussidi ai combustibili fossili produrrebbe una riduzione del 10% delle emissioni. Una cosa è sicura: il mondo non può perdere un altro decennio. “Non abbiamo tempo per aspettare una trasformazione culturale”, conclude Caserini. “È il momento di cominciare a discutere come rendere la transizione competitiva e senza costi sociali e diminuire le emissioni subito. E in questo vanno coinvolte tutte le forza politiche, destra compresa, perché la battaglia sul clima non ha colore politico, è una questione di sopravvivenza per molte persone e molti territori”.
Non basta! Gli obblighi internazionali assunti in Francia non sono sufficienti Per limitare il riscaldamento globale ed evitare il disastro, occorrerebbe tagliare le emissioni del 7,6% l’anno