Il Fatto Quotidiano

Mania del moderno: la giunta rossa non vuole case popolari

EMILIA Appello per non abbattere il monumento

- » TOMASO MONTANARI

Quando si parla di “patrimonio culturale” non si deve pensare solo alle cattedrali medioevali, ai palazzi del Rinascimen­to, ai grandi musei, ai capolavori di Caravaggio: il patrimonio è quel tessuto continuo composto da natura, storia, arte che dà senso al nostro stare insieme. È una sorta di memoria collettiva: e per ogni cellula che ne perdiamo, siamo un po’ meno liberi dalla dittatura di questo presente assoluto.

Quando si parla di “patrimonio culturale” non si deve pensare solo alle cattedrali medioevali, ai palazzi del Rinascimen­to, ai grandi musei, ai capolavori di Caravaggio: il patrimonio è quel tessuto continuo composto da natura, storia, arte che dà senso al nostro stare insieme. È una sorta di memoria collettiva: e per ogni cellula che ne perdiamo, siamo un po’ meno liberi dalla dittatura di questo presente assoluto e insieme fugace. Per questo è così importante non lasciarsi andare ad una smania di “modernizza­zione” (la parola magica che tanti lutti addusse agli inglesi e poi a tutti gli europei con l’avvento della sinistra-di-destra di Tony Blair) che distrugga le memorie di un passato recente, e magari assai poco telegenico: l’architettu­ra rurale che punteggia le nostre campagne, le infrastrut­ture della viabilità ( si pensi alla dignità modesta e onorevole delle rosse case dell’Anas), i quartieri operai del primo Novecento. Anche queste testimonia­nze della nostra comune civiltà vanno salvate, perché testimonia­ndo la gioia e la fatica di ogni giorno, rendono visibile ( e condivisib­ile) la nostra comune umanità. Eppure, non è un messaggio così facile da far passare, in tempi di consumismo, sviluppism­o, rottamazio­ne: specie nelle regioni ricche, così decise a cancellare ogni traccia della propria passata povertà (e con essa, spesso, della propria virtù).

È IL CASO della pingue Emilia Romagna, così conscia del proprio benessere da esser saltata subito sul carro, a trazione leghista, dell’autonomia differenzi­ata, la “secessione dei ricchi”. Qua, dopo il terremoto del 2012, si finirono senza pietà le umili architettu­re ferite: o attraverso l ’ a b b a n d o n o (quanti casali rurali, semidistru­tti e abbandonat­i, si scorgono attraversa­ndo la pianura padana…) o con un uso disinvolto della dinamite, che fece brillare municipi e campanili (cosa di più simbolico, nella terra di Peppone e Don Camillo?) colpevoli di aver solo uno o due secoli di vita, e di non essere attrazioni turistiche, ma solo monumenti civici. È questo il contesto della piccola (ma quanto rivelatric­e) battaglia che si sta consumando in queste ore a Castelfran­co Emilia, alle porte della città metropolit­ana di Bologna. Qui un’amministra­zione di centrosini­stra sta per demolire un intero isolato del proprio centro storico, in violazione di qualunque principio.

La colpa di quelle case? Essere povere: un quartiere operaio tenacement­e voluto dalla giunta socialista (quella sì) nel 1909. A progettarl­e l’ingegnere Augusto Barigazzi, protagonis­ta nella ideazione della precoce edilizia sociale pubblica non solo in ambito bolognese, che sarà poi il principale artefice della prima produzione dell’Istituto per le case popolari di Bologna. Insomma: case che nella loro pulita, povera, razionalis­tica funzionali­tà stanno di diritto in ogni storia dell’architettu­ra del Novecento. O del design, per essere più glamour. Un bel libro di Maria D’Amuri (La casa per tutti nell’Italia giolittian­a. Provvedime­nti e iniziative per la municipali­zzazione dell’edilizia popolare, Ledizioni 2013) ricostruis­ce il contesto politico e sociale di quell’iniziativa insieme sociale e architetto­nica. Nell’autunno del 1905, l’assessore Oreste Maccaferri presentò il progetto alla cittadinan­za: esclusa “subito qualunque benché minima idea di ornamentaz­ione e di grandiosit­à, inutile e assolutame­nte impossibil­e”, si sarebbe trattato di case “sane, comode, bene orientate, provviste di acqua potabile, di fognatura”, dotate “a piano terra di una cucina con relativo acquaio, e di una legnaia ad uso anche di cantina, con ripostigli­o per il cesso, e al primo piano di una o due o tre camere da letto”. Sebbene qualche cittadino protestass­e per “la mancanza di porcili annessi alle case operaie”, il progetto andò avanti e il comune accese un mutuo di centomila lire, e di 35 anni, con la Cassa di Risparmio di Verona. Di fronte alle complicazi­oni burocratic­he insorte, l’amministra­zione comunale difese quelle case con una determinaz­ione pari a quella con cui, i suoi attuali successori, le vogliono invece in parte distrugger­e.

Nel 2015 la consiglier­a comunale 5 Stelle

Giulia Gibertoni presentò un’interrogaz­ione sul piano di recupero delle case operaie, che “prevedeva un primo stralcio, finanziato dalla Regione con 554 mila euro, relativo al recupero di due delle quattro stecche di abitazioni”. Ma “a oltre dieci anni d a ll ’ a gg i u di c azione del bando, solo una delle quattro stecche è stata recuperata, peraltro parzialmen­te, una delle imprese aggiudicat­arie, la Coop IGEA di Castelfran­co, è fallita, il cantiere è stato da tempo smantellat­o, le rimanenti abitazioni sono in rovina, così come le corti interne, e la costruzion­e della sede comunale (magazzino) non è mai iniziata”.

LA CONCLUSION­E di questa ordinaria storia di incuria è l’attuale decisione di demolire. Oggi Italia Nostra denuncia il caso, dimostrand­o che le ( incredibil­i) autorizzaz­ioni dei Beni Culturali alla demolizion­e sono viziate da errori di fatto, e dunque chiedendo di fermare le ruspe.

E c’è davvero da sperare che il Mibact accolga questa richiesta, e che dunque il centro storico di Castelfran­co rimanga intatto: mai come oggi abbiamo bisogno che quelle case continuino a raccontare la loro storia di umanità, di solidariet­à, di concretiss­ima utopia socialista. Perché l’Emilia ( già) rossa per la cui possibile caduta siamo in ansia, ha già perduto da tempo la propria anima: che quelle pietre custodisco­no, e potrebbero restituirc­i.

Solo una parte è stata recuperata, una delle imprese è in bancarotta, il cantiere smantellat­o Le case restanti in rovina

GIULIA GIBERTONI

Gli incredibil­i via libera dei Beni Culturali alla demolizion­e sono viziati da errori di fatto Chiediamo di fermare subito le ruspe

ITALIA NOSTRA

“Secessione dei ricchi” 10 anni fa l’assegnazio­ne del bando per riqualific­are l’area: la ditta è fallita e il cantiere bloccato

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Le case popolari di Castelfran­co, volute dalla giunta socialista nel 1909, saranno rese al suolo
Ansa Rase al suolo? Le case popolari di Castelfran­co, volute dalla giunta socialista nel 1909, saranno rese al suolo
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