“REPUBBLICA” AGLI ELKANN È TUTTA PANNA MONTATA
Fu Eugenio Scalfari, in un articolo pubblicato sull’Espresso il 28 luglio 1974, a ribattezzarlo fin dal titolo “l’Avvocato di panna montata”. Gianni Agnelli aveva deciso di vendere alla Rizzoli – dietro la quale s’intravvedeva l’ombra di Eugenio Cefis, il potente presidente della Montedison – la quota del Corriere della Sera detenuta dalla Fiat. E allora Scalfari sferrò un attacco ad Agnelli, sospettando che fosse uscito dalla compagine azionaria di via Solferino per fare una cortesia ad Amintore Fanfani e alla Democrazia cristiana.
“QUELL’ARTICOLO era una reprimenda personale ancor prima che politico-finanziaria”, avrebbe poi spiegato Carlo Caracciolo, editore del gruppo L’Espresso e cognato di Agnelli, nel libro-intervista intitolato L’editore fortunato a cura di Nello Ajello. E lui stesso aggiunse: “Dopo aver avanzato varie ipotesi sul comportamento del capo della Fiat in quella vicenda, Scalfari concludeva che essa assumeva per Agnelli l’aspetto drammatico e senza ritorno che la battaglia Waterloo ebbe a suo tempo per Napoleone. Faceva da corollario a questa constatazione un esame quasi psicoanalitico del personaggio Gianni, i cui comportamenti venivano influenzati dal tedio di cui soffriva, dalla sua volagerie, dal suo essere fatto, appunto di panna montata”.
A mezzo secolo di distanza, arrivato alla veneranda età di 95 anni, oggi il fondatore di Repubblica si ritroverà John Elkann, il nipotino dell’Avvocato di “panna montata”, come proprietario del suo giornale – confluito intanto nel gruppo Gedi – in seguito al compimento della cessione della quota di controllo dalla Cir (la finanziaria della famiglia De Benedetti) alla Exor (la finanziaria della famiglia Agnelli). Si completerà così la maxi-fusione denominata “Stampubblica” che nel 2016 aveva avviato la trasformazione dell’ex gruppo L’Espresso in un gruppo di potere.
Per via della parentela tra Agnelli e Caracciolo, non erano mai stati facili i rapporti tra la Fiat e L’Espresso. Più volte l’Avvocato aveva manifestato al cognato il “disagio politico” che derivava alla sua azienda e alla sua famiglia dai presunti legami con il battagliero settimanale di via Po, “t ro v a n do s i Gianni a capo di un’azienda che da sempre era governativa per definizione”, come spiega l’“editore fortunato” nell’intervista ad Ajello. Se ne ricava indirettamente una conferma anche dalla testimonianza di Giulia Maria Crespi, ex proprietaria del Corriere della Sera e successivamente azionista del gruppo L’Espresso, che nel memoir intitolato Il mio filo rosso riferisce una conversazione con Gianni Agnelli: “La Fiat – le dice l’Avvocato – ha filiali in gran parte del mondo. Il Corriere parla della Russia, della Spagna, dell’Argentina, del Brasile con troppa spregiudicatezza, senza peli sulla lingua. Per noi questo è un problema. In politica interna poi, certi argomenti, certi tempi vengono trattati senza sfumature. La questione dell’aborto, del divorzio: noi proprio non potremmo permettere prese di posizione così dirette”. Basterebbe già questo per smentire la tesi secondo cui la Repubblica eLa Stampaavrebbero “radici comuni di due mondi del giornalismo e della cultura”, sostenuta dall’ex direttore di entrambe le testate, Ezio Mauro. In realtà la sua nomina, voluta nel 1996 da De Benedetti, segnò la prima “discontinuità”, il primo strappo nella storia del giornale di
Scalfari. Fino a quando la presenza del fondatore è stata pressoché quotidiana, e fino alla scomparsa di Caracciolo, si può dire che la Repubblica abbia mantenuto la rotta. Poi, nel secondo decennio di Mauro, ha cominciato a perdere copie per arrivare al tracollo con la direzione di Mario Calabresi, imposta dall’Ingegnere all’insaputa di Scalfari. E oggi, sotto la guida più esperta di Carlo Verdelli, naviga su una linea di galleggiamento nell’incertezza esistenziale fra il giornale d’opinione e quello più popolare d’ispirazione sportiva.
Sarà pur vero, dunque, che John Elkann è meglio di Carlo De Benedetti, come afferma qualche autorevole esegeta di casa Fiat. Sta di fatto che oggi, mentre la prima industria privata italiana passa sotto l’egida francese della Peugeot, la Repubblica e L’Espresso cambiano padrone per affrontare un futuro incerto e pieno di incognite. Sarà messo in vendita “a spezzatino” l’ex gruppo Caracciolo? Quali conseguenze potrà avere l’eventuale uscita del titolo dal listino di Borsa, secondo le intenzioni attribuite al giovane Elkann? E soprattutto, che fine faranno le gloriose testate guidate da Scalfari?
Una previsione è lecita: la Repubblica e L’Espresso targati Fiat, con tutto il rispetto per le rispettive direzioni e redazioni, avranno molte difficoltà a preservare la propria autonomia e indipendenza rispetto a una proprietà che ha poco o nulla a che fare con l’editoria. Dovranno tentare di conciliare l’anima progressista e l’identità di sinistra con gli animal spirits del capitalismo familiare italiano. E rischieranno così di diventare due giornali di “panna montata”.