I Riva uccidevano l’Ilva coi politici a fare il palo
Alle origini del declino dell’Ilva (ormai irreversibile, sia chiaro), ci sono la natura cleptomane dell’imprenditoria italiana e la congenita vigliaccheria del ceto politico. Tutti i politici con un briciolo di peso o di potere hanno fatto finta di non vedere, nella migliore delle ipotesi, che cosa stava combinando Emilio Riva a Taranto. Nella peggiore gli hanno fatto da palo.
L’Ilva pubblica era, paradossalmente, una casa di vetro. Inquinava moltissimo anche allora, visto che un eroe civile come il magistrato Franco Sebastio aprì il primo fascicolo sui veleni dell’allora Italsider nel 1978, quindici anni prima della privatizzazione. Però era di proprietà statale e quindi tutti sapevano tutto, ogni manager di minimo calibro aveva il politico di riferimento, i sindacati pesavano e mettevano bocca, i giornalisti potevano serenamente entrare negli impianti e vedere. Con buona pace dei mercatisti ottusi, la democrazia attenua la malagestio. Taranto era un casino, ma faceva la miglior lamiera d’Europa e le maggiori case automobilistiche se la contendevano.
FORSE PER QUESTO un bel giorno del 1993 la Commissione europea impose all’Italia di privatizzare tutto. Qui bisognerebbe aprire la dolorosa parentesi della liquidazione dell’Efim decisa dal premier Giuliano Amato con il piglio del vero liquidatore della Prima Repubblica e dell’accordo tra il ministro degli Esteri Nino Andreatta e il commissario Karel Van Miert che fu peggio del l’arrivo della troika. Ma non c’è spazio, e quindi arriviamo al 1995 quando il consiglio d’am m i n is t r a z io n e dell’Iri, nominato pochi mesi prima da Silvio Berlusconi, svende a un amico di Silvio Berlusconi, Emilio Riva, la più grande acciaieria d’Europa: 8,5 milioni di tonnellate prodotte nell’ultimo anno, con un margine operativo lordo (Ebitda) di mille miliardi di lire, vanno via per 2.500 miliardi di lire. Allora si calcolava che costruire quella fabbrica da zero sarebbe costato 10 volte il prezzo pagato da Riva. Comunque un’acciaieria a 2,5 volte l’Ebitda non è una vendita, è un regalo. Nel cda dell’Iri, tra i donatori, c’è anche Piero Gnudi che vent’anni dopo sarà scelto dall’oculato Matteo Renzi come commissario dell’Ilva lasciata a pezzi da Riva.
MA LA COSA PIÙ GRAVEè che il padrone delle ferriere entra nella fabbricona di Taranto e impone le sue regole: cancelli chiusi, nessuno deve sapere niente di che cosa accade lì dentro. I sindacati vengono annichiliti. Non sono pochi quelli che si fanno corrompere, chi resiste viene segregato nella palazzina Laf senza mansioni. Per questo mobbing antisindacale Riva verrà condannato a un anno e dieci mesi. Ma le notizie non circolano e i politici di ogni colore fanno finta di non sapere e di non vedere, in ginocchio davanti al padrone delle ferriere che con condiscendenza li finanzia tutti, destra, sinistra e centro.
La famiglia Riva delinque indisturbata. Prima condanna per inquinamento nel 2002, seconda condanna per inquinamento nel 2007, poi nel 2012 l’arresto e il sequestro degli impianti. Il governo Monti si scatena contro i magistrati e in difesa dell’industriale: si sa, Riva porta lavoro mentre Sebastio, diventato nel frattempo capo della procura di Taranto, porta la miseria. I ministri tecnici sono capitanati d a l l’ex banchiere di Intesa Sanpaolo Corrado Passera che nel 2008 aveva organizzato per Berlusconi il salvataggio di Alitalia con i soldi dei “capitani coraggiosi”, tra i quali c’era Riva che doveva ammansire il governo dell’amico Silvio a proposito di certe grane di inquinamento che aveva a Taranto. Ma Passera non sapeva niente. Anche se Intesa era la principale banca creditrice di
Riva, a Milano non era arrivata la notizia che Riva non portava solo lavoro ma anche morte. Non solo per l’inquinamento, ma anche per la pericolosità del lavoro in fabbrica: a Taranto mediamente tre operai morti ogni anno, caduti, schiacciati, bruciati, colpiti, sventrati. Ma quasi mai la notizia usciva da Taranto, chi ha mai saputo della morte di Paolo Franco (24 anni), Pasquale D’Ettorre (27), Gianluigi Di Leo (25), Vito Antonio Rafanelli (33), Domenico Occhinegro (26) e Andrea D’Alessano che di anni ne aveva solo 19? Ma chi sono? Nomi presi a caso nella lista delle vittime immolate dall’Ilva sull’altare del “senza acciaio l’Italia industriale è morta”. Intanto sono morti loro e adesso toccherà anche all’Italia industriale.
I NOSTRI CONDOTTIERIinfatti hanno finto di non sapere che Riva non solo uccideva e inquinava, ma prendeva i profitti dell’acciaieria che aveva avuto in regalo e li portava in Svizzera, dove a un certo punto i magistrati hanno trovato e recuperato 1,2 miliardi. Chissà dov’è il resto. Certo è che i commissari, capitanati da Gnudi, sostengono che Riva ha risparmiato sulla manutenzione degli impianti oltre 8 miliardi. E così quando i magistrati hanno sequestrato (per modo di dire) gli impianti e Passera si stupiva (frase memorabile: “Nonostante gli investimenti realizzati, la situazione ambientale presenta ancora elementi di criticità che non ci consentono di esprimere ancora un giudizio conclusivo sulla loro efficacia”) l’Ilva era già morta, perché già non era più in grado di tirare fuori lamiere decenti e i clienti erano già in fuga. Mittal se l’è presa, grazie a complicità dentro il governo, solo per essere si
IL DISASTRO ORIGINARIO
Nel 1995 viene svenduta per 2.500 miliardi di lire E nessuno saprà più cosa succede dietro i cancelli
SETTE ANNI AD OCCHI CHIUSI
Gli impianti inquinavano, morivano lavoratori, si produceva sempre meno e gli utili finivano in Svizzera