I migranti di Carola toccano a Berlino, ma sono a Crotone
Accordi ignorati A giugno la Germania s’impegnò ad accogliere undici dei 53 salvati dalla giovane tedesca. “A Crotone nessuno si occupa di noi”
Lukas prova a camminare intorno al Cara di Crotone, dove sta adesso, ma ha freddo e indossa ancora i vestiti estivi ricevuti sulla nave. Poi torna dentro e prova a dormire, perché i ricordi delle torture nei lager libici di Zawiya e Tripoli non gli danno pace: li innaffiavano con tubi d’acqua e poi accendevano la corrente elettrica ai loro piedi. È riuscito a scappare da quella prigione, come già era riuscito a salvarsi da un’imboscata di pirati nel Sahara e dalle milizie in Camerun che avevano ucciso suo figlio di sei anni e bruciato la casa. Ha preso un gommone di notte in quella traversata che non dimenticherà mai. Il 12 giugno, la Sea Watch 3 guidata da Carola Rackete, lo ha trovato in acque internazionali insieme ai suoi 52 compagni di sventura e li ha portati in salvo. Dopo due settimane in attesa di un porto sicuro, gli è stato promesso di poter fare richiesta d’asilo in Germania. Ha ricevuto la notifica del ministero dell’Interno italiano: la Germania si prendeva carico di lui e di altri dieci profughi della Sea Watch3, tra cui una donna incinta. Un accordo con cinque Paesi, celebrato dal governo Conte. Francia, Germania, Portogallo, Finlandia e Lussemburgo si sarebbero presi i profughi della Sea Watch 3. La politica dei porti chiusi cominciava a portare i suoi frutti. E infatti dopo la Sea Watch 3, anche le altre persone arrivate in Sicilia e a Taranto, con navi di Ong straniere, sono state redistribuite tra vari Paesi. Sulla carta. Perché di fatto le redistribuzioni si fanno con il contagocce. E la Germania non è ancora venuta a prendersi nessuno.
“SIAMO RIMASTI
chiusi nell’hotspot di Messina per i primi 10-14 giorni, non potevamo uscire perché eravamo diversi dagli altri, noi dovevamo partire”, racconta una ragazza della Costa d’Avorio, incontrata a Strasburgo dove si trova adesso. “Funzionari francesi sono venuti a interrogare dodici persone, a inizio luglio, poi ne hanno prese solo nove, non si capisce perché”, dice Haidi Sadik di Sea Watch. Ma il gruppo “francese” è stato il più fortunato, è riuscito a partire a inizio agosto. Poi, il Portogallo, a metà settembre, ha portato via cinque persone tra cui una famiglia con un bambino di sei mesi. Hanno seguito il Lussemburgo (tre) e la Finlandia (sei). La Germania, dopo aver mandato funzionari a interrogare i candidati, doveva portarne via undici. Ma non è mai tornata a prenderli. Aspettano da sei mesi. “Queste persone sono state abbandonate, non hanno ricevuto un codice fiscale per le cure mediche fuori dall’hotspot o per lavorare, non hanno mai visto uno psicologo, seppur alcune ragazze erano traumatizzate dalle violenze sessuali subìte in Libia”, spiega Giuseppe Platania, di Borderline Sicilia.
A inizio ottobre, le associazioni Asgi, Borderline e ActionAid denunciano le cattive condizioni dell’hotspot di Messina: “I richiedenti asilo della Sea Watch3 non hanno informazioni, non ricevono assistenza legale e sociale. Nessun medico o psicologo si prende cura di loro, i farmaci vengono negati perché ‘vi verranno somministrati nel Paese di destinazione’, viene detto loro”.
A inizio novembre gli undici della Germania vengono spostati nel centro di Crotone, dove ancora aspettano notizie da Berlino. E intanto, nessun diritto. “Non ci danno soldi per la giornata, siamo a mezzora a piedi dal primo centro abitato, due ore da Crotone. Nessuno ci dice niente. È peggio di una prigione, non ho neanche più voglia di mangiare”, dice Lukas fuori dal centro.
GLI ACCORDI
di distribuzione sono in effetti posati su niente, l’art. 17 della Convenzione di Dublino ammette “accordi volontari tra gli Stati” e lascia tutto alla buona volontà dei governi, in una zona grigia di non-diritto. “Non sappiamo quello che è successo nei colloqui con i singoli richiedenti asilo – continua Haidi Sadik di Sea Watch a Berlino –, gli avvocati non erano presenti, con quali criteri alcune persone sono state lasciate in Italia?”.
Per il governo italiano è fondamentale lasciare aperta la porta del dialogo. Il 23 settembre scorso, a Malta, Francia,
Germania e Malta hanno dato il loro sostegno a un accordo di distribuzione costante dei migranti. La Germania, rappresentata dal ministro dell’interno Horst Seehofer, si è detta disposta a prendere fino al 25% delle persone arrivate in nave. Ma già dopo due settimane, in un Consiglio a Lussemburgo, il tedesco ha chiarito che questo vale solo se i numeri restano bassi. “Domani posso dichiarare terminato il meccanismo di emergenza”, ha precisato.
ROMA CERCA
di mantenere in vita l’accordo di Malta. “Stiamo provando a migliorare il sistema – dice una fonte del ministro dell’Interno –, chiediamo che la procedura venga chiusa in massimo quattro settimane; che il Paese ospitante termini l’identificazione prendendo le impronte digitali (sistema Eurodac) e sia quindi anche responsabile di eventuali rimpatri”. Sarebbe il superamento di fatto delle regole di Dublino del primo Paese responsabile di tutta la procedura d’asilo. Ma Berlino ribadisce invece che “la procedura d’asilo spetta al primo Paese d’arrivo”. Sulle ricollocazioni dopo gli ultimi sbarchi, il ministero dell’Interno tedesco ha risposto a Investigate-Europeche “è l’Italia a doversi far carico dei trasferimenti”, in un gioco dello scaricabarile.
Intanto le navi continuano ad arrivare e seppure i salvataggi con le Ong rappresentino solo il 10% degli sbarchi (fonte Ispi), le distribuzioni sono in un pantano. Solo la Francia le fa. Su 925 persone sbarcate in nave da giugno a novembre, in Sicilia o a Taranto, Berlino dovrebbe farsi carico di circa 165 persone. Cifre irrisorie, rispetto ai 13.909 “du blinanti” arrivati in Italia fino a ottobre (dati governo tedesco), ma scappati in Germania, che Berlino vuole rispedire in Italia secondo le attuali regole. Finora 1.126 richiedenti asilo sono tornati in Italia.
*Investigate-Europe
Scaricabarile
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