La scelta consapevole del declino
▶AVETE
mai sentito Salvini, Di Maio, Zingaretti, Renzi o la Meloni parlare di produttività in qualche talk show? No. Eppure di tutti i problemi dell'Italia, questo dovrebbe essere il primo in cima all'agenda della politica, perché gran parte dei malesseri del Paese derivano dalla stagnazione che sperimenta da un ventennio. Un recente rapporto Istat sulla produttività – quanto lavoro o capitale serve per realizzare un certo prodotto o fornire un certo servizio – indica la gravità del problema. Nel 2018 la produttività del lavoro è diminuita dello 0,3 per cento, quella del capitale è aumentata dello 0,1. Pessimo segnale: quando le imprese vedono la produttività di minuire, o tagliano i salari o tagliano le persone. Il dato più inquietante riguarda la produttività totale dei fattori, che misura come interagiscono capitale e lavoro. Se un'impresa investe in tecnologia, per esempio, gli input di capitale e lavoro dovrebbero dare risultati migliori. In Italia la produttività totale dei fattori nel 2018 è diminuita, come succedeva tra il 2003 e il 2009. Subito prima della crisi, quindi, l'Italia già andava in retromarcia, poi ha recuperato un po' e ora torna ad andare all'indietro. La media della crescita della produttività totale dei fattori tra il 1995 e il 2018 è zero. Come dire che l'economia italiana non ha fatto un passo in avanti negli ultimi 24 anni, mentre il resto del mondo correva e imparava a ottenere molti più risultati: a parità di risorse impiegate, noi restavamo immobili a guardare. Pier Paolo Pasolini, negli anni Settanta, denunciava lo “sviluppo senza progresso”. Abbiamo risolto il dilemma rinunciando sia allo sviluppo sia al progresso, la politica ha ridimensionato la sua ambizione promettendo soltanto la redistribuzione di una ricchezza inesistente, prelevata dal deficit e dunque dalle generazioni future.
Senza affrontare il nodo della produttività, non ci resta che il declino.