Mittal, ennesimo ricatto: 4700 esuberi e meno investimenti
Ilva La multinazionale presenta un piano con 4.700 licenziati I sindacati scioperano. Il governo: “Delusi, così niente intesa”
ArcelorMittal
ha forse cambiato i toni, dopo la grande paura “giudiziaria”, ma non la sostanza. E ieri, durante l’incontro coi sindacati al ministero dello Sviluppo, ha presentato un nuovo piano industriale per l’ex gruppo Ilva che si limita a peggiorare quello vecchio col contentino di una assai parziale “decarbonizzazione” della fabbrica.
LA REAZIONE di Cgil, Cisl e Uil è stata l’immediata indizione di una giornata di sciopero per martedì: “Questo non è un piano industriale, ma un progetto di chiusura nel tempo di Taranto e di Ilva”, riassume Maurizio Landini. Lo stesso ministro Stefano Patuanelli s’è detto “molto deluso” dallo spettacolino messo in piedi dall’azienda - rappresentata dall’ad Lucia Morselli - nella sede del suo dicastero.
La “nuova” strategia della multinazionale funziona così: per ovviare alle perdite registrate nella gestione dell’Ilva (i conti al 30 settembre 2019 raccontano di un rosso da 531 milioni), vengono proposti più o meno gli stessi esuberi chiesti un mese fa, meno investimenti negli impianti, obiettivi di produzione al 2021 più alti.
Nel dettaglio: secondo ArcelorMittal, la produzione dell’ex Ilva - invece di scendere sotto i 4 milioni di tonnellate l’anno prefigurando lo spegnimento dell’area a caldo di Taranto (la parte industriale più “pregiata”) - risalirà entro il 2021 a sei milioni di tonnellate. Contemporaneamente, rispetto all’accordo firmato a settembre 2018 (che già prevedeva 1.900 esuberi), l’azienda chiede altri 4.700 licenziamenti (2.891 nel 2020), portando in due anni il totale degli occupati nell’ex gruppo Ilva da 10.789 a 6.098 (il risparmio s’aggira sui 200 milioni di euro l’anno). Per chi resta, peraltro, i franco-indiani pretendono la revisione al ribasso della contrattazione aziendale.
A fronte di questo schiaffo, Arcelor vorrebbe cavarsela con una parzialissima “decarbonizzazione” di Taranto, realizzata peraltro diminuendo gli investimenti ambientali: oltre alla cosiddetta “area a freddo” (che produce coi semilavorati), fino al 2022 rimarrebbero in produzione tre altiforni (tra cui il 2, cioè quello che secondo l’azienda andava chiuso su ordine della magistratura); dal 2023 l’altoforno 2 però sarà spento e messo in funzione un forno elettrico capace di produrre 1,2 milioni di tonnellate di acciaio all’anno.
Per lo “sforzo” di passare a una tecnologia meno inquinante per un forno su tre, Arcelor spenderà 230 milioni. Il conto finale, però, sarà a suo favore: visto che intende chiuderlo non farà gli investimenti previsti nel vecchio piano sull’altoforno 2, rivedrà al ribasso quelli sulle “aree dismesse” (-138 milioni) e sulla copertura dei parchi minerati (sarà per 500 metri anziché 700) della fabbrica di Taranto. Avendo comunque tagliato gli obiettivi di produzione di lungo termine, non sarà nemmeno riattivato l’altoforno 5 risparmiando altri 250 milioni. Di fatto, Arcelor si terrà in tasca almeno mezzo miliardo.
RIASSUMENDO, un piano fortemente ridimensionato rispetto a quello del 2018 e che nemmeno garantisce vita e salute per i tarantini. Per questo il ministro Patuanelli ha usato parole dure: “Sono molto deluso, l’azienda non ha fatto alcun passo avanti. Entro lunedì il governo presenterà un suo piano industriale con uso di tecnologie sostenibili per arrivare a produrre 8 milioni di tonnellate tutelando i livelli occupazionali. Una cosa deve essere chiara: entro il 20 dicembre dobbiamo sapere se c’è una trattativa, ma se la posizione è quella di oggi non ci sono le condizioni”.
A perdere...
Un forno elettrico attivo dal 2023, ma almeno 500 milioni in meno su ambiente, salari e impianti