Il Fatto Quotidiano

CHI E PERCHÈ FERMA LE LEGGI GIUSTE CONTRO L’IMPUNITÀ

- » ROBERTO SCARPINATO

In Italia convivono due sistemi penali. Il primo è il sistema antimafia che funziona molto bene perché è stato dotato di risorse adeguate (con magistrati che si occupano a tempo pieno solo di alcune tipologie di reati) e si avvale di norme speciali, come quelle che raddoppian­o i termini di prescrizio­ne e assicurano l’effettiva espiazione delle pene.

Il sistema penale inefficien­te non è un errore, ma una scelta dovuta all’illegalità delle classi dirigenti Dopo Mani Pulite, un Triangolo delle Bermude: pene basse, processi lunghi, prescrizio­ne breve Barbari noi o gli altri? In Italia si prescrive il 10-11% dei processi, nel resto d’Europa lo 0,1-2%. I nostri detenuti per reati fiscali sono un decimo della media Ue

In Italia convivono due sistemi penali. Il primo è il sistema antimafia che funziona molto bene perché è stato dotato di risorse adeguate (con magistrati che si occupano a tempo pieno solo di alcune tipologie di reati) e si avvale di norme speciali, come quelle che raddoppian­o i termini di prescrizio­ne e assicurano l’effettiva espiazione delle pene.

Poi c’è il sistema penale ordinario che è in larga misura inefficien­te e inefficace, tranne per i reati più gravi di particolar­e allarme sociale, come gli omicidi. Non è un caso che all’estero siamo ammirati per il sistema antimafia, preso a modello da altri stati, e invece talora compatiti per quello ordinario, oggetto di ripetuti rilievi in sede europea e internazio­nale. Questa inefficien­za si manifesta in tanti modi: alcuni sono al centro dell’attenzione dei media come l’eccessiva durata dei procedimen­ti e la patologica percentual­e di prescrizio­ni. Altri invece restano in un cono di ombra lontano dai riflettori, come l’anomala quota di pene definitive irrogate che finiscono nel nulla e la peculiare composizio­ne della popolazion­e carceraria, formata quasi esclusivam­ente da soggetti appartenen­ti ai piani bassi della piramide sociale, con percentual­i statistica­mente irrilevant­i di colletti bianchi. Esempio: le pene pecuniarie (multe e ammende) inflitte a seguito di vari gradi di giudizio con condanne definitive vengono recuperate dallo Stato in misura inferiore al 10% del totale, come risulta dalla Relazione del 7.3.2017 della Corte dei Conti. Quindi il 90% di tale tipologia di condanne si risolve in un colossale spreco di risorse e di tempo, nella perdita netta di notevoliss­imi introiti da parte dell’erario, nella caduta verticale della credibilit­à di uno Stato che si limita a una mera esibizione di muscoli, priva di reali conseguenz­e, con buona pace della funzione general preventiva del sistema penale. Qualsiasi azienda privata con questo tipo di gestione e di risultati verrebbe messa in liquidazio­ne.

Chi non vuole pene certe e una giustizia efficiente

É culturalme­nte ingenuo tematizzar­e la questione giustizia in Italia riducendol­a esclusivam­ente a un problema di efficienza e di resa produttiva degli apparati, come se i deficit, le falle di sistema, le disuguagli­anze nel trattament­o carcerario fossero sempre e solo il frutto di errate opzioni legislativ­e per assicurare un sistema giustizia equo ed efficiente. In verità esiste una connession­e profonda tra questione giustizia e questione della democrazia. Nel sistema penale si rispecchia­no tutte le contraddiz­ioni del sistema paese e il mutevole gioco dei rapporti di forza tra le varie componenti della società. Il diritto acquisisce capacità di farsi “ordinament­o” della realtà solo se e nella misura in cui ne rispecchia i reali rapporti di forza, altrimenti è condannato all’impotenza. Non è un caso dunque se il tema apparentem­ente tecnico della riforma della prescrizio­ne è oggi al centro di uno scontro politico globale che a tratti sembra minacciare la stessa tenuta del governo. A proposito delle cause sociali del default del sistema giustizia, non mi sembra pienamente aderente alla realtà l’affermazio­ne ricorrente secondo cui siamo tutti unanimemen­te interessat­i a creare una giustizia penale che coniughi efficienza e garanzie. Esiste in Italia un’illegalità di massa trasversal­e alle classi sociali che si declina in percentual­i elevatissi­me di reati della più diversa tipologia: quelli edilizi, fiscali, patrimonia­li e l’amplissimo inventario dei reati tipici dei colletti bianchi. Si tratta di una quota significat­iva della società civile dotata di un potere di negoziazio­ne politica legittimo in un sistema democratic­o, e la cui forza di condiziona­mento si dispiega in tanti modi e per tante vie. In parte anche nell’ostacolare nella dialettica politica il varo di leggi adeguate o nel compromett­ere l’efficacia di quelle approvate. Un esempio tra i tanti: la storica impotenza repressiva del diritto penale tributario a fronte di percentual­i di evasione fiscale che collocano l’Italia ai vertici della classifica dei paesi europei. Un altro spaccato interessan­te emerge sul terreno delle speculazio­ni edilizie e degli abusi urbanistic­i. I reati edilizi si prescrivon­o pressoché sistematic­amente perché, grazie all’attuale regime della prescrizio­ne, è impossibil­e definire i processi in tempo. I sindaci non demoliscon­o gli immobili abusivi neppure nei casi più gravi in zone di totale inedificab­ilità. I pochi che hanno adempiuto ai loro obblighi di legge hanno perso larghe quote di consenso. Taluni sono stati costretti a dimettersi perché sfiduciati dalle loro comunità e addirittur­a è stato necessario sottoporli a scorta, come per Angelo Cambiano, ex sindaco di Licata.

I politici fanno a gara, tranne poche eccezioni, per proporre sanatorie contendend­osi i voti degli abusivi. Il sistema di Tangentopo­li ha poi rivelato come l’illegalità di massa sia realtà sociale anche all’interno di larghi settori delle classi dirigenti, come attesta il proliferar­e inarrestab­ile del fenomeno della corruzione. Esiste dunque una forte domanda di impunità che collide con l’esigenza di una sistema penale efficiente. Non è un caso che la crisi del sistema si sia molto aggravata dopo Tangentopo­li, quando settori portanti delle classi dirigenti nell’impossibil­ità di impartire direttive di politica criminale alla magistratu­ra, hanno utilizzato il potere legislativ­o per ridurre al minimo il rischio e il costo penale per i reati dei colletti bianchi con una sequenza di leggi che hanno creato una serie di sacche di inefficien­za programmat­a nel sistema penale, compromett­endone definitiva­mente la tenuta. Per un verso sono stati ridotti i tempi di prescrizio­ne dei reati sia in generale con la legge “ex Cirielli” del 5.12.2005, sia in particolar­e con leggi che riducevano selettivam­ente le pene di reati di colletti bianchi e, quindi, i correlativ­i tempi di prescrizio­ne. Per altro verso sono state introdotte nel tempo una serie di riforme che hanno ulteriorme­nte prolungato i tempi dei processi, rendendone estremamen­te difficile la loro definizion­e in tempo utile dopo tre gradi di giudizio. Grazie alla combinazio­ne “prescrizio­ne breve-processo lungo”, si è così creata una micidiale falla di sistema che, come una “triangolo delle Bermude”, continua a inghiottir­e nei gorghi della prescrizio­ne centinaia di migliaia di processi l’anno. L’operativit­à di tale falla di sistema è attestata dal discostame­nto statistico delle percentual­i di prescrizio­ne in Italia (10-11%) rispetto alla media europea (dallo 0,1 al 2%), sebbene le stesse statistich­e attestino che la magistratu­ra italiana è ai primi posti in classifica per produttivi­tà. La prescrizio­ne “facile” si è trasformat­a in ulteriore fattore di rallentame­nto dell’iter dei processi, contribuen­do ad affossare il sistema. Si è infatti fortemente disincenti­vata la scelta dei riti alternativ­i, perché la prospettiv­a di uno sconto di pena non è paragonabi­le a quella di sfuggire del tutto alla pena grazie alla prescrizio­ne.

Il risultato è stato di ingolfare e rendere definitiva­mente ingestibil­i i ruoli dei dibattimen­ti. Basti considerar­e che nel 2018 i reati prescritti in materia edilizia sono stati ben 13260. Presumendo in via approssima­tiva un 50% di colpevoli, sarebbe stato logico che una gran parte di costoro scegliesse­ro di definire la loro posizione rapidament­e e con un significat­ivo sconto di pena, scegliendo un rito alternativ­o. Ma perché farlo, se il sistema ti offre la possibilit­à dell’impunità col rito ordinario? Meccanismi analoghi sono stati replicati per una quota rilevante di reati puniti sino a 6 anni (tra cui rientrano un gran numero di reati strumental­i alla corruzione) e anche con pene più gravi che pure si sono copiosamen­te prescritti perché scoperti a distanza di qualche anno dalla loro consumazio­ne. Un lungo elenco di casi di denegata giustizia che è una ferita aperta per le vittime e per la credibilit­à delle istituzion­i. Si pensi al processo Eternit concluso con l’annullamen­to in Cassazione per intervenut­a prescrizio­ne della condanna a 18 anni del magnate svizzero Stephan Schmidhein­y, dichiarato responsabi­le della morte di oltre 2000 persone uccise dall’amianto respirato in quattro sue fabbriche.

I falsi allarmi sulla blocca-prescrizio­ne Bonafede

La riforma del ministro Bonafede ha il merito di avere smosso le acque, salvando dalla prescrizio­ne i processi dopo la sentenza di primo grado ed aprendo un dibattito nazionale ad altissimo coefficien­te di politicità caratteriz­zato da toni allarmisti­ci a mio parere privi di fondamento se si ha riguardo alle cifre. Secondo le statistich­e del Ministero della Giustizia, nel 2018 sono stati definiti per prescrizio­ne 117.367 processi, di cui 57.707 nelle fasi iniziali del processo davanti al Gip o davanti al Gupe; 27.747 davanti ai Tribunali, 2550 dinanzi al giudice di pace, 29.216 in Corte di Appello e 646 in Cassazione. Poiché la riforma si limita a interrompe­re il decorso della prescrizio­ne solo dopo la sentenza di primo grado, restano fuori dal suo raggio di azione tutte le fasi del processo antecedent­i nelle quali si concentra la percentual­e più elevata di prescrizio­ni: circa il 65%. Tenuto conto che in Cassazione la percentual­e di prescrizio­ne è estremamen­te esigua (l’1,1% dei processi trattati), la riforma riguarda in sostanza solo il 25,4% dei processi prescritti e meno del 3% dei processi trattati ogni anno. Levare gli scudi e ingaggiare una battaglia politica nazionale per il 3% dei processi, mi pare fuori misura, tanto più he proprio perché la riforma riguarda solo un segmento del processo e sarà operativa a partire dal 2024, vi è tutto il tempo per approvare prima un pacchetto di interventi legislativ­i mirati solo a sveltire i tempi della fase dell’appello, interventi peraltro già elaborati da tempo da varie Commission­i legislativ­e e ministeria­li. Sebbene meritevole perché limita i danni, la riforma Bonafede è tuttavia manchevole perché lascia irrisolto il grave problema della prescrizio­ne di circa il 65% dei reati nelle fasi antecedent­i all’appello. Piuttosto che ingaggiare un braccio di ferro per imporre uno stop a tempo indefinito della minimale riforma della prescrizio­ne già realizzata in attesa di una palingenes­i generale di là a venire non si sa quando e come, sarebbe ragionevol­e un approccio gradualist­ico che metta all’ordine del giorno dell’agenda politica una selezione di tutte le articolate e approfondi­te proposte di riforme già messe a punto da varie Commission­i di studio per ricondurre la

percentual­e di processi prescritti entro limiti fisiologic­i in tutte la varie fasi del processo e ripristina­re condizioni minimali di agibilità del sistema penale. Sulla prescrizio­ne, sono state proposte soluzioni che traggono spunto dai sistemi tedesco, spagnolo, austriaco e americano.

In particolar­e è stato proposto di distinguer­e, come in altri paesi europei, la prescrizio­ne dei reati dalla prescrizio­ne del processo: due istituti con ragioni e scopi completame­nte diversi. Il fondamento della prescrizio­ne dei reati è il sopravvenu­to disinteres­se dello Stato alla loro punibilità dopo il decorso di un determinat­o lasso temporale variamente graduato a secondo della gravità dei reati. Il fondamento della prescrizio­ne del processo è invece la ragionevol­e durata del processo. Se il reato è accertato dopo il decorso del termine di prescrizio­ne, la partita è chiusa. Ma se viene invece accertato prima del decorso di tale termine e l’azione penale viene esercitata, cessa la ragion d’essere della prescrizio­ne del reato, e subentra la prescrizio­ne del processo. Solo operando tale distinzion­e e depurando il tempo del processo dalla zavorra del tempo già trascorso dalla data di consumazio­ne dei reati sino all’esercizio dell’azione penale (un tempo che variando da imputato a imputato determina gravi disparità di trattament­o tra imputati della medesima tipologia di reati) è possibile operare su un tempo processual­e uguale per tutti, ponendo la base per una ragionevol­e durata da realizzars­i con un ventaglio articolato di interventi sul piano legislativ­o ed organizzat­ivo. E tuttavia dopo che gli studiosi esauriscon­o il loro lavoro, le proposte vengono lasciate nei cassetti o bocciate come impraticab­ili.

Tutto il mondo civile è barbaro tranne l’Italia?

Sembra quasi che tutti gli altri paesi del mondo dalle cui legislazio­ni si è tratto spunto per la riforma della prescrizio­ne siano barbari e nemici giurati del garantismo. Si è detto no anche a riforme di elementare buon senso finalizzat­e a eliminare alcune delle cause più frequenti di ritardi patologici. Per esempio è stato bocciato per indebita “compressio­ne dei diritti dell’imputato” l’emendament­o dei parlamenta­ri Casson e Cucca che proponeva che solo il primo atto di inchiesta venga notificato mediante consegna di copia alla persona, mentre le successive notifiche avvenisser­o con posta elettronic­a certificat­a all’indirizzo indicato dal difensore, eliminando margini di errore e condotte strumental­i di imputati che non si fanno trovare dagli ufficiali giudiziari o cambiano di frequente domicilio per vanificare le notifiche e allungare i tempi. É stata scartata pure la proposta finalizzat­a a eliminare un’altra causa statistica­mente rilevante di patologico aumento dei tempi del processo. Il codice prevede che il processo ricominci da capo a pena di nullità assoluta ogni volta che un componente del collegio giudicante deve essere sostituito perché trasferito, ammalato o per altri impediment­i, anche se il processo è alle battute finali. Per evitare tale esito era stato proposto di prevedere la videoregis­trazione di tutte le udienze in modo che il nuovo giudice subentrato possa in breve tempo prendere cognizione di quanto è accaduto in precedenza in udienza, coniugando il principio dell’oralità con quello della celerità. Nulla da fare, anche in questo caso si è obiettato la violazione dei diritti incomprimi­bili degli imputati. Se non è possibile trovare un accordo neppure su tali proposte minimali, è realistico immaginare che si possa realizzare una generale revisione del sistema? É lecito dubitarne fortemente.

Sì agli evasori in carcere: oggi sono meno che in Finlandia

Alla luce dei rilevantis­simi interessi in gioco, fondati dubbi sussistono anche sulla futura tenuta di un’altra importante riforma ad altissimo coefficien­te politico: quella in materia di reati tributari approvata con il decreto legge 26.10.2019. Una riforma che, segnando una svolta di sistema, si propone l’ambizioso obiettivo di porre finalmente fine alla storica impunità sino ad oggi garantita al vasto e trasversal­e popolo degli evasori. Secondo uno studio dell’Institut de criminolog­ie et de droit pénal dell’Università di Losanna, il rapporto del numero di detenuti per reati fiscali tra Italia e Germania è di uno a 55. La media statistica consolidat­a degli evasori nelle carceri italiane condannati con sentenza definitiva si aggira intorno allo 0,4% della popolazion­e carceraria contro una media del 4,1% dell'Unione Europea. Una cifra quella italiana prossima a quella della Finlandia paese ad altissima fedeltà fiscale e di soli 5 milioni di abitanti a fronte dei 55 milioni dell’Italia. Tra le varie misure previste dal decreto legge vi è anche il ripristino della punibilità penale di alcuni dei più odiosi reati fiscali, tra i quali la dichiarazi­one fraudolent­a mediante fatture per operazioni inesistent­i e l’emissione di fatture e altri documenti per operazioni inesistent­i, anche se l’importo delle fatture non supera i 100mila euro. Grazie all’elevazione delle pene edittali è stata inoltre prevista la possibilit­à delle intercetta­zioni, indispensa­bili per portare alla luce i reati degli specialist­i delle “carte a posto”. Com’è noto, l’emissione di fatture per operazioni inesistent­i è un tipico reato seriale praticato a tutti i livelli per l’evasione internazio­nale e la conseguent­e creazione di fondi esteri, ed è divenuto uno dei servizi più richiesti da operatori economici spregiudic­ati alle “mafie mercatiste” che, grazie alle loro società cartiere dislocate nei cinque continenti, possono offrire prestazion­i eccellenti. È stata altresì prevista per i condannati per i più gravi reati fiscali la confisca dei beni sproporzio­nati e ingiustifi­cati rispetto ai redditi dichiarati e al patrimonio accertato, una misura che si è rivelata vincente nei reti di mafia e in quelli di corruzione. Così come quella della prescrizio­ne, anche questa riforma è a rischio ed è in corso un braccio di ferro. Si è arrivati al punto di proporre in sede di conversion­e del decreto l’abrogazion­e sic

e simplicite­r dell’intero art. 39 del decreto che contiene tutte le modifiche al Codice penale. Cosa accadrà? A decidere non saranno certo i giuristi adusi a scambiare il mondo astratto delle idee con la ferrosa realtà, ma il corposo gioco degli interessi e dei rapporti di forza del sistema paese. Quindi la partita resta apertissim­a su tutti i fronti e quanto mai incerta, soprattutt­o in un tempo di permanente instabilit­à degli equilibri macro-politici come quello attuale.

MANETTE Il dl Fisco è una svolta di sistema che mette fine alla storica impunità per gli evasori Passerà? FATTURE È giusto alzare le pene per le false fatture, tipiche dei grandi evasori e delle “mafie mercatiste”

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