Il congedo autobiografico di Pellizzetti
Affronta un peregrinaggio lungo undici racconti per scandagliare i luoghi dell’anima
Un congedo autobiografico che porta con sé l’eco di tòpoi letterari d’antica memoria. La fine delle buone maniere, l’ultimo libro del sociologo e saggista genovese Pierfranco Pellizzetti, è un peregrinaggio a tappe sparse tra i luoghi dell’anima. L’autore, condotto dalla “terribile registrazione dei danni irreparabili compiuti dallo scorrere del tempo”, fa i conti con la corrosione interiore che gli deriva dal constatare che il declino indiscriminato da cui la società è stata travolta trova riscontro nella personalissima percezione di se stesso. Logorato dalle “rughe dell’anima prima ancora che dei corpi”. A riprova di ciò, in questo guizzo narrativo della memoria che si districa tra i ricordi, Pellizzetti si fa accompagnare da quei letterati “amici” che – prima di lui – hanno esperito la disgregazione di un mondo e dei propri valori.
BASTI PENSARE a Rutilio Namaziano, considerato l’ultimo poeta latino, che contempla affranto la consunzione dei fasti dell’antica Roma durante il viaggio di ritorno in Gallia. Anche il nostro autore fa un percorso a ritroso, seguendo l’anarchia dei moti interiori. Undici racconti divisi in due sezioni, Partenze e ritorni e Alla ricerca della città, coniugano la vena malinconica alla capacità critica, non lesinando laddove necessario passaggi di acuta ironia. A quattro anni Pellizzetti scopre la differenza di classe. Lui proviene dai “riti borghesi”, quelli delle cene calendarizzate col “menù invariato da epoche immemorabili”. Gli mancano i mostaccioli di Natale in brodo, il pandolce alla genovese. Le vacanze estive trascorse sull’Appennino.
Gli alti soffitti affrescati a motivi pompeiani delle ville in cui scorrazzava bambino. Quel mondo è finito e son finite pure le buone maniere.
ARRIVANO gli anni Ottanta e l’ambizione di conquistare una posizione tra i salotti internazionali del business. “Mi sorreggeva l’eccitazione illusoria di essere nel vento”, scrive. L’affare si complica e al self-made man che importa poltrone da dentista dall’Est si pone dinanzi un bivio. Il margine tra legalità e illegalità si fa sottile. Pellizzetti sceglie di rimanere fedele ai propri valori. Ciò non avviene però su grande scala. La società cambia. Cambia pure la sua città, Genova, dove torna. I ponti crollano. Le fondamenta sprofondano. Si fa più lucida la consapevolezza che – come disse Gertrud Stein – “il vero problema delle radici è l’impossibilità di portarsele dietro”. La solitudine è tale che l’unico interlocutore diviene il libro stesso, talvolta anche beffardo nelle sue constatazioni. “Il mio mondo è andato perduto e io non sono stato capace di costruirmi neppure quella tanto evocata scialuppa di salvataggio”. Sebbene Pellizzetti sembri dirci addio con questo libro che conclude congedandosi con le buone maniere a cui è stato educato, ci sono qua e là segnali che inducono a pensare che forse non sia così. Affiorano la memoria, “ultima speranza identitaria”. E la “fiamma della passione civile”.