I badanti d’oggi sono millennials senza un lavoro
Alessio, in fondo, si considera un ragazzo fortunato, almeno per quanto può esserlo un giovane al quale l’assistenza quotidiana di un fratello disabile ha sottratto l’adolescenza. “Occuparmi di lui mi ha dato una marcia in più. Sono cresciuto in fretta, ho imparato ad arrangiarmi, a risolvere da solo i problemi, con una sensibilità che mi ha anche avvantaggiato nei rapporti con gli altri. Poi però c’è il lato oscuro: la paura per il futuro, il timore costante di non farcela”. Alessio ha 23 anni, vive in un paese della provincia di Modena e appartiene al mondo silenzioso dei caregiver. Una popolazione di quasi 7,3 milioni di persone, costituita in prevalenza da donne (57%) e concentrata in maggioranza (53%) nelle regioni del Centro, del Sud e delle isole, e nella fascia d’età compresa tra i 45 e i 64 anni. Un esercito di persone impegnate ogni giorno nell’assistenza di una persona cara. Per malattia, vecchiaia, invalidità. In molti casi – due milioni – quasi a tempo pieno: dalle venti ore in su alla settimana.
Un mondo in ombra dove sono tutti invisibili. Ma dove c’è chi è più invisibile degli altri. Alessio è tra questi ultimi. Ed è uno dei tanti. Ufficialmente – ultimo censimento Istat – sono 391 mila i giovani tra i 15 e i 24 anni chiamati a occuparsi di un familiare: non di rado di un genitore tossicodipendente, alcolista o con disturbi mentali. Nella realtà sono molti di più, secondo le associazioni di volontariato e le cooperative sociali che tentano di sollevare il velo su un fenomeno ancora in larga parte sconosciuto. Perché in assenza di rilevazioni sistematiche, di fronte al silenzio, è l’esperienza sul campo a perimetrare il fenomeno. “Facciamo numerose iniziative di sensibilizzazione nelle scuole superiori – spiega Licia Boccaletti, presidente della cooperativa sociale “Anziani e non solo” –, e i numeri che emergono sono univoci: in ogni istituto circa il 20% degli studenti è un caregiver, anche se spesso non sa di esserlo”.
Alessio riflette in sé le due facce di una stessa medaglia. Maturità emotiva e senso di responsabilità, da un lato. Isolamento, depressione e ansia, dall’altro. In lui, nonostante tutto, prevale la prima. Chi non ce la fa, invece, precipita nell’angoscia. L’abbandono degli studi dopo la scuola dell’obbligo, a causa dell’impegno di cura, è spesso il primo approdo, insieme a una progressiva marginalizzazione e alla rinuncia, talvolta, a ricercare un’occupazione.
La ricerca Istat: i neet, 1 su 4, sono giovani caregiver
Tra i pochi studi realizzati in Italia sui giovani caregiverc’è una ricerca del ministero del Lavoro secondo cui ben il 25,6% dei neet, vale a dire dei ragazzi che non vanno a scuola o all’università e che non lavorano, sono tali per motivi familiari, schiacciati dalla necessità di occuparsi di un parente. Un genitore, un nonno, un fratello. Quasi sempre in assenza di una rete di servizi sociosanitari di sostegno, se non in situazioni di emergenza.
Alessio ha iniziato ad accudire Andrea quando aveva dodici anni. Usciva da scuola e si dedicava al fratello, colpito in tenera età da una bronchiolite diagnosticata in ritardo che ha compromesso le attività cerebrali. Tutti i giorni così, calato nell’esistenza dei siblings : coloro che si prendono cura di un fratello o di una sorella disabile. “Mio padre – dice –, è un piccolo imprenditore, mia madre una insegnante. Entrambi sono sempre molto impegnati e ci siamo ripartiti i compiti. Per tanto tempo mi sono sentito molto solo. I miei coetanei uscivano, io dovevo stare in casa con mio fratello, che ha biso
gno di assistenza 24 ore su 24. I momenti di sconforto? Tanti. E poi c’è la rabbia, tanta rabbia, davanti alla latitanza delle istituzioni: qualche aiuto c’è fino a quando il disabile è minorenne. Dopo, l’attenzione già carente si dirada. Solo quando ho conosciuto altri giovani caregiver come me, e mi sono confrontato su una quotidianità che non ti permette di programmare nulla, né una serata fuori né tantomeno, una vacanza, ho capito di non essere l’unico”.
Un fenomeno globale: in Europa sono 100 milioni
All’origine dell’aumento dei giovani caregiver, secondo le associazioni di volontariato, ci sono diversi fattori. Da un lato il progressivo invecchiamento della popolazione e l’aumento dei nuclei monogenitoriali, privi di una rete familiare. Poi c’è la crescita di patologie come la Sla, i disturbi mentali, il morbo di Alzheimer e di Parkinson. Il ricorso alle badanti, a partire dagli anni
Novanta, ha solo attutito l’impatto. “Basta poco, un genitore che si ammala, un incidente che rende invalido un familiare: purtroppo non è infrequente – dice Boccaletti –. Solo che nessuno se ne occupa. Né i medici, né gli psicologi, né gli operatori sociosanitari, né le scuole. Nessuno, fino ad ora, ha voluto scoperchiare il vaso”.
Un fenomeno che riguarda tutta l’Europa: secondo le stime, sarebbero in tutto 100 milioni i caregiver che si prendono cura per oltre 7 ore al giorno di un proprio familiare a livello volontario. Solo che l’Europa è divisa a metà. “In generale nei Paesi del Nord c’è un forte investimento sui servizi sociali e sanitari sulla base di una impostazione che assegna allo Stato il compito di provvedere, in quelli del Sud l’investimento è sui sussidi economici”, spiega Loredana Ligabue, segretaria di Carer, associazione emiliano- romagnola di c a re g i ve r . “Con il risultato – prosegue –, che soprattutto in Italia tutto ricade sulle spalle dei familiari che si assumono il compito di cura, rinunciando a progetti di vita”.
L’indennità di accompagnamento, erogata dall’Inps e sganciata dal reddito, è di fatto l’unica forma di sostegno. Poco più di 500 euro al mese per chi ha una invalidità che lo rende non autosufficiente. “Contributo importante, ma non basta”, dice Francesca Centola di Carers, organizzazione europea di associazioni di caregiver . “Perché chi si occupa di un proprio caro resta una persona con aspirazioni ed esigenze. Se è giovane, dovrebbe rimanere attiva nella scuola, se adulta nel mondo del lavoro, tutti dovrebbero continuare ad avere una vita sociale. E sarebbe necessario riconoscerle il periodo di cura anche per quanto riguarda i contributi previdenziali”.
Alessio nonostante tutto è riuscito a proseguire gli studi, oggi è uno studente di Ingegneria. Progetta un futuro, ma sa che il suo è ipotecato. “Mi domando sempre cosa farò quando i miei genitori non ci saranno più e allora dovrò farmi carico di mio fratello da solo. Dovrò conciliare famiglia, vita professionale, assistenza. Mi dico che una soluzione la troverò. Intanto, mi concentro sull’oggi. Perché adesso, tanto, ho una sola alternativa: rimandare il pensiero”.
Caregiver: non solo donne In quei 7 milioni di persone che si prendono cura di un malato in famiglia ci sono anche i giovani Sono spesso studenti, e sempre di più: un esercito di invisibili