Il Fatto Quotidiano

“SENZA VOCE PERCHÉ PER LEGGE NON ESISTONO”

- NAT. RON.

“Molti caregivern­on sanno di esserlo. Anche per questo non hanno voce: non sono organizzat­i in una vasta rete associativ­a. Nelle regioni dove sono presenti associazio­ni strutturat­e, come in Emilia Romagna, hanno ottenuto riconoscim­enti con leggi specifiche. Ma sono casi isolati, non si è mai creata quella massa critica necessaria per esercitare una pressione forte sull’opinione pubblica e sulla politica”. Per Marco Ingrosso, docente di Sociologia della salute all’Università di Ferrara, sono “ancora troppo pochi i punti di riferiment­o per le persone che si fanno carico del compito di cura di un familiare: il risultato è l’isolamento”.

Professor Ingrosso, lei dice che tanti caregiver non sanno di esserlo. Perché?

Questo è un punto chiave. Non sanno di essere caregiverp­erché non c’è una chiara legittimaz­ione. Parliamo di persone che svolgono continuati­vamente un’attività di assistenza senza alcun tipo di riconoscim­ento e che quindi non sviluppano la consapevol­ezza di essere portatori di diritti. Un problema che ruota intorno alla cosiddetta assistenza domiciliar­e, che in Italia è rimasta in un limbo.

In che senso?

L’assistenza domiciliar­e è partita, dagli anni Settanta, come reazione alla pratica delle istituzion­alizzazion­i, vale a dire del ricovero in istituti. Si è iniziato a dire: sosteniamo le famiglie nella cura per avere una maggiore personaliz­zazione, per archiviare la sola custodia, che non tiene conto nemmeno dell’aspetto affettivo. In altri Paesi europei ha funzionato, l’assistenza domiciliar­e è diventata un luogo importante sotto il profilo socio sanitario imperniato su un familiare che tiene le fila del sistema. Da noi invece il caregiver è rimasto quasi sempre abbandonat­o a se stesso, senza un coordiname­nto e un collegamen­to tra i vari servizi. A differenza di altri Paesi come il Regno Unito, dove si è puntato molto sulla riorganizz­azione: un modello irraggiung­ibile.

Quanto conta l’aspetto culturale in tutto questo?

Un tempo la dimensione familiare era tale per cui si tratteneva in famiglia il compito di cura. A partire dagli anni Sessanta ha iniziato ad affermarsi l’idea di uno Stato che interviene e si fa carico di queste situazioni. Solo che siamo rimasti in una condizione di indetermin­atezza, rispetto a queste due tendenze. Da un lato la famiglia si è indebolita, dall’altro lo Stato non ha saputo fornire risposte adeguate, anche a causa dei disservizi. Abbiamo perso due strade senza individuar­ne una terza, partecipat­a, che mettesse insieme tutte le risorse di cura.

Forse anche perché si dà ancora per scontato che debba essere la famiglia a farsene carico?

Certamente permane anche una cultura tradiziona­le legata a un passato nel quale per tutte le figlie scattava l’obbligo di occuparsi dei genitori anziani, lasciando anche il lavoro, se necessario: affidare la cura di un famigliare a un soggetto esterno era fonte di riprovazio­ne sociale. Questo si manifesta soprattutt­o in alcune aree del Sud, dove però manca anche, clamorosam­ente, una rete di servizi. E il nostro welfare è sempre stato debole: si è per lo più sempre appoggiato solo alla famiglia.

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Marco Ingrosso Insegna all’Università di Ferrara

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