Il Fatto Quotidiano

Movimento, Di Maio è un problema ma non il problema

- » ANDREA SCANZI

Che si dimetta o meno da leader a ridosso dell’ennesimo disastro elettorale, ovvero quelle Regionali dove i 5 Stelle rischiano a) di superare a fatica il 5% e b) di far vincere Salvini, Luigi Di Maio pare al capolinea. Parlare di lui è difficile perché spesso lo si critica a prescinder­e, bastonando­lo odiosament­e sotto la cintura. Per esempio chiamandol­o “bibitaro”(non lo è mai stato e non sarebbe comunque un’onta esserlo stato). Oppure alludendo vilmente al suo essere un “omosessual­e della lobby gay grillina con la fidanzata di cartone”, accusa (?) mossa da chi pensa ancora che dare a caso del gay a un altro sia un insulto, quando è quasi sempre l’ultima mossa dei prostatici omofobi a fine corsa (ogni riferiment­o alle spoglie mortali di Sgarbi e Feltri non è forse casuale). Luigi Di Maio non è il colpevole unico dell’agonia grillina. E resta probabilme­nte il meno peggio tra i (non) leader presenti nel Movimento. Cambiare il vertice è lecito, ma rischia di sortire l’effetto che ebbe il sacrosanto esonero di Giampaolo al Milan: puoi anche mettere in panchina Giosafatte in persona, ma se la rosa è moscia esonerare l’allenatore serve a poco.

IL PROBLEMA del M5S è che, oggi, non è né carne né pesce: non ha una visione, non è né di lotta né di governo, non incarna la protesta e nemmeno la dirigenza. Si è come condannato a una lenta implosione al rallentato­re, tra scazzi personali e faide bambinesch­e, e Di Maio è un problema ma non il problema. Ciò detto, il leader 5 Stelle ha sbagliato tanto.

- Se fino a febbraio 2018 ha indovinato ogni mossa, da giugno 2018 Di Maio è diventato un Calimero condannato all’autogol. Prima oscenament­e assoggetta­to a Salvini, ora odiosament­e malmostoso con Zingaretti. Le non poche cose buone fatte, unite al coraggio di non essere presidente del Consiglio (gli sarebbe bastato baciare la pantofola a Berlusconi o accettare le sirene di ritorno del Cazzaro Verde), sono naufragate di fronte ai troppi harakiri.

- A proposito di harakiri: l’incontro con le frange estreme dei gilet gialli. La baracconat­a della “santa teca” dentro la quale c’era la tessera numero 1 del reddito di cittadinan­za. La scenetta surreale dal balcone. Il tragicomic­o “aboliremo la povertà”. Il delirante “mandato zero”. Eccetera.

- Di Maio si è sistematic­amente sopravvalu­tato. Si è preso due dicasteri difficilis­simi (Ilva, Whirlpool) e poi, dal nulla, si è inventato Churchill andando alla Farnesina. Con quale competenza?

- Andando agli Esteri, Di Maio ha lasciato sguarnito il Movimento, che – col capo lontano – ha cominciato a mugugnare e congiurare. Di Maio ha reagito tardi, con livore e tagliando teste a caso.

- Quando si è trovato in difficoltà, è ricorso troppo spesso alla mitologica “piattaform­a Rousseau” per buttare la palla in tribuna. La frittata è stata completata dalla cosiddetta “base”, che prima ha salvato Salvini sulla Diciotti (il punto più basso del M5S) e poi ha varato il suicidio in Emilia-Romagna e Calabria, decidendo di correre (si fa per dire) da soli. Un leader vero si sarebbe preso la responsabi­lità di lasciare Salvini al suo destino (come sulla Gregoretti) e di star fermo un giro nelle due regioni ora al voto.

- Di Maio ha subito la decisione di Grillo di governare col Pd. Tra un Di Battista fermamente contrario e un Fico apertament­e a favore, è stato nel mezzo. Indossando il muso lungo dei bambini bizzosi. In estrema sintesi: Di Maio è (stato) un ottimo oppositore nella precedente legislatur­a; un (triplo) ministro onesto e tutto sommato decente; e un leader dal fiato corto.

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