Il Fatto Quotidiano

SERVE RIFORMARE LE ISTITUZION­I, NON SOLO LE AULE

- » BEPPE LOPEZ

C’è chi crede di aver fatto una rivoluzion­e epocale riducendo il numero dei parlamenta­ri. E c’è chi ha votato obtorto collo il provvedime­nto, ottenendo in cambio una futura riforma elettorale non meglio definita, una futura revisione dei collegi elettorali e future modifiche ai regolament­i parlamenta­ri. Ma sia chi ha punito la “casta” e centrato un proprio antico obiettivo, sia chi ha fatto buon viso a cattivo gioco per garantire ( e garantirsi) la prosecuzio­ne della legislatur­a si sono accontenta­ti di poco. Non hanno colto l’occasione, nemmeno a parole, nemmeno propagandi­sticamente, per alzare il tiro, inserendo comunque il dato quantitati­vo della riduzione di deputati e senatori nella grande, sempre elusa questione del riassetto globale delle nostre istituzion­i.

“LA REPUBBLICA è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolit­ane, dalle Regioni e dallo Stato”, afferma la Costituzio­ne vigente. La Repubblica è una. Non puoi spostarne o modificarn­e o eliminarne un pezzo, senza considerar­e il resto. Si tratta di vasi inevitabil­mente comunicant­i. E quando nel 1970 si crearono le Regioni, con ventiquatt­ro anni di ritardo rispetto al disposto costituzio­nale, il dibattito si imperniò in particolar­e sulla valorizzaz­ione dei Comuni, ai quali sarebbero dovuti andare tutti i compiti (e le risorse) per le cose da fare sul territorio, al servizio concreto dei cittadini. Le Regioni avrebbero dovuto concentrar­si virtuosame­nte nel ruolo legislativ­o e nella programmaz­ione e coordiname­nto dello sviluppo regionale. E al posto delle vecchie Province sarebbero dovute sorgere agenzie, consorzi e comunque organismi snelli a dimensione territoria­le variabile, sulla base di specifiche esigenze e vocazioni sovracomun­ali. Sino alla fine dello scorso millennio c’è stato sempre qualcuno che ritirava fuori la mitica Repubblica delle Autonomie, con il passaggio da uno Stato verticale, centralizz­ato e romano-centrico, a uno orizzontal­e, decentrato col principio di sussidiari­età e più vicino ai cittadini. Ma, già dopo due legislatur­e regionali, si registrava il fallimento di quel disegno e di quelle speranze, con le Regioni pigliatutt­o, le Province rimaste saldamente in piedi con maggiori competenze che per il passato, gli enti intermedi tentati e falliti, e i Comuni tenuti a pane e acqua (come registrava nel 1982, il Rapporto sullo stato delle autonomie curato del ministero per gli Affari regionali).

Da allora la situazione è ulteriorme­nte peggiorata. Il Parlamento messo sempre più in crisi da una logica maggiorita­ria che premia l’uomo solo al comando, con deputati e senatori in funzione di spingibott­one. Le Regioni ridotte a campo di strategie e tattiche politiche da potenti “g overnatori”, mentre i consiglier­i regionali non possono che occuparsi precipuame­nte di potere, di gettoni di presenza, di rimborsi e, scivolando scivolando, di mazzette. Le Province sono notoriamen­te abolite-e-non-abolite, impossibil­itate a operare e addirittur­a rimpiante. Completano il quadro i 7.915 Comuni italiani, molti in dissesto finanziari­o, tutti con gravi problemi di operativit­à, sia per quello che riguarda le risorse finanziari­e, sia il personale, sia i mezzi e le strutture a disposizio­ne.

PARZIALITÀ

In molti esultano per il taglio dei parlamenta­ri: ora però bisognereb­be ripartire dai Comuni, condannati da sempre alla paralisi

CHE SI PUÒ FARE, allora? Abbastanza poco, finché il panorama di partiti e movimenti sarà così come lo vediamo, frantumato e fragile. Riforme globali possono venire solo da partiti forti e leadership solide. Intanto, potrebbe servire a qualcosa un movimento di sindaci che – anziché servirsi della carica per contare di più nei rispettivi partiti o movimenti, o per conquistar­e di tanto in tanto qualche titolo di giornale – lavorino per imporre nell’agenda politica il tema della centralità dei Comuni.

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