SERVE RIFORMARE LE ISTITUZIONI, NON SOLO LE AULE
C’è chi crede di aver fatto una rivoluzione epocale riducendo il numero dei parlamentari. E c’è chi ha votato obtorto collo il provvedimento, ottenendo in cambio una futura riforma elettorale non meglio definita, una futura revisione dei collegi elettorali e future modifiche ai regolamenti parlamentari. Ma sia chi ha punito la “casta” e centrato un proprio antico obiettivo, sia chi ha fatto buon viso a cattivo gioco per garantire ( e garantirsi) la prosecuzione della legislatura si sono accontentati di poco. Non hanno colto l’occasione, nemmeno a parole, nemmeno propagandisticamente, per alzare il tiro, inserendo comunque il dato quantitativo della riduzione di deputati e senatori nella grande, sempre elusa questione del riassetto globale delle nostre istituzioni.
“LA REPUBBLICA è costituita dai Comuni, dalle Provincie, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, afferma la Costituzione vigente. La Repubblica è una. Non puoi spostarne o modificarne o eliminarne un pezzo, senza considerare il resto. Si tratta di vasi inevitabilmente comunicanti. E quando nel 1970 si crearono le Regioni, con ventiquattro anni di ritardo rispetto al disposto costituzionale, il dibattito si imperniò in particolare sulla valorizzazione dei Comuni, ai quali sarebbero dovuti andare tutti i compiti (e le risorse) per le cose da fare sul territorio, al servizio concreto dei cittadini. Le Regioni avrebbero dovuto concentrarsi virtuosamente nel ruolo legislativo e nella programmazione e coordinamento dello sviluppo regionale. E al posto delle vecchie Province sarebbero dovute sorgere agenzie, consorzi e comunque organismi snelli a dimensione territoriale variabile, sulla base di specifiche esigenze e vocazioni sovracomunali. Sino alla fine dello scorso millennio c’è stato sempre qualcuno che ritirava fuori la mitica Repubblica delle Autonomie, con il passaggio da uno Stato verticale, centralizzato e romano-centrico, a uno orizzontale, decentrato col principio di sussidiarietà e più vicino ai cittadini. Ma, già dopo due legislature regionali, si registrava il fallimento di quel disegno e di quelle speranze, con le Regioni pigliatutto, le Province rimaste saldamente in piedi con maggiori competenze che per il passato, gli enti intermedi tentati e falliti, e i Comuni tenuti a pane e acqua (come registrava nel 1982, il Rapporto sullo stato delle autonomie curato del ministero per gli Affari regionali).
Da allora la situazione è ulteriormente peggiorata. Il Parlamento messo sempre più in crisi da una logica maggioritaria che premia l’uomo solo al comando, con deputati e senatori in funzione di spingibottone. Le Regioni ridotte a campo di strategie e tattiche politiche da potenti “g overnatori”, mentre i consiglieri regionali non possono che occuparsi precipuamente di potere, di gettoni di presenza, di rimborsi e, scivolando scivolando, di mazzette. Le Province sono notoriamente abolite-e-non-abolite, impossibilitate a operare e addirittura rimpiante. Completano il quadro i 7.915 Comuni italiani, molti in dissesto finanziario, tutti con gravi problemi di operatività, sia per quello che riguarda le risorse finanziarie, sia il personale, sia i mezzi e le strutture a disposizione.
PARZIALITÀ
In molti esultano per il taglio dei parlamentari: ora però bisognerebbe ripartire dai Comuni, condannati da sempre alla paralisi
CHE SI PUÒ FARE, allora? Abbastanza poco, finché il panorama di partiti e movimenti sarà così come lo vediamo, frantumato e fragile. Riforme globali possono venire solo da partiti forti e leadership solide. Intanto, potrebbe servire a qualcosa un movimento di sindaci che – anziché servirsi della carica per contare di più nei rispettivi partiti o movimenti, o per conquistare di tanto in tanto qualche titolo di giornale – lavorino per imporre nell’agenda politica il tema della centralità dei Comuni.