Le provocazioni beffarde e l’istinto dinamitardo: con lui non finiva mai 0-0
Mi hanno sempre colpito i furori di Giampaolo Pansa, l’impeto con cui investiva la vittima di turno, il politico mellifluo, il collega infingardo, l’asprezza delle sue profezie catastrofiche sull’Italia popolata da troppi italiani per potersi salvare. L’ultima volta che gli parlai fu giusto un anno fa negli studi di Piazza Pulita, quando da uno schermo lontano (così come lunare appariva il suo distacco dalle cose di questo mondo dopo la scomparsa improvvisa del figlio Alessandro) ebbe a definire il Salvimaio “un governo di terroristi”, annunciò la “guerra civile”, a cui unico rimedio, disse, sarebbe stato “un governo di tecnici sostenuto dai militari”. Non provai neppure a replicare: ne conoscevo abbastanza l’istinto dinamitardo, la provocazione anche beffarda mirata a sorprendere comunque il pubblico, perché il giornalista Pansa non faceva mai zero a zero. Non so se in questo giorno gli farebbe piacere il paragone con certi virtuosi del pallone, geniali nell’illuminare l’azione ma troppo innamorati di se stessi, e scostanti, per partecipare al gioco di squadra.
PER UNA VITA ho invidiato il suo strepitoso stile pop nel senso del miglior giornalismo popolare: descrizioni accurate, dialoghi sfolgoranti ma soprattutto metafore passate alla storia come la Balena Bianca con cui immortalò la vecchia Dc. Per un apprendista della carta stampata (mi consideravo tale anche se lavoravo al Corriere della Sera) quelle paginate erano materia di studio da scomporre e ricomporre per cercare di carpirne il segreto. Mi ripeto: quegli articoli erano come la formula della Coca Cola di cui sono noti gli ingredienti ma non la chimica da cui scaturisce il sapore inimitabile. Con Giampaolo ci trovammo all’inizio degli anni 90 all’Espresso dove aveva seguito il grande Claudio Rinaldi come condirettore. Me lo ricordo come il paladino di una sinistra intransigente, preceduto da una medaglia al valore: la tesi di laurea sulla guerra partigiana tra Genova e il Po, un testo che ebbe l’onore della pubblicazione con Laterza. Nelle riunioni di redazione saliva in cattedra con il piglio del docente rassegnato alla mediocrità degli allievi. Da grande affabulatore gli piaceva raccontare un episodio sulla leggenda luciferina di Giulio De Benedetti, suo direttore alla Stampa a cui ebbe la disavventura di sottoporre una recensione non richiesta sul film Il giorno più lungo. Giulio il terribile convocò l’autore e sotto il suo sguardo sgomento prese lo scritto e lo ridusse in mille pezzetti. A questo punto, Giampaolo, con la mano a imbuto, mostrava come il frutto del suo lavoro si fosse trasformato in una nevicata di coriandoli che De Benedetti lasciava cadere con le fatidiche parole: “Ecco, Pansa, cosa faccio del suo articolo”. Sottotesto: care fighette, allora questo mestiere era lacrime e sangue. La vita successiva di Giampaolo è segnata dall’enorme successo de Il sangue dei vinti, sulle efferatezze occultate della guerra partigiana. Con le polemiche incandescenti che ne seguirono e che seppe alimentare con decine di altri titoli. Uno dei quali: La destra siamo noi sembrò dare ragione a quanti sostenevano la sua resa al nemico “fascista”. Altri si chiesero quando è che Pansa avesse smesso di essere di sinistra. Ho sempre ritenuto che avessero torto entrambi: lui pensava di essere rimasto sempre lo stesso, ma non sopportava più l’o p po r t un i sm o trasformista della sinistra, le falsificazioni faziose dei cantori progressisti, la perdita di contatto con il popolo, la svendita dei propri valori. Oggi possiamo dire che aveva visto lungo. Quando dirigevo l’Unità e molti lettori criticarono il suo parteggiare per i “vinti”, scrisse cose che mi fecero male. Oggi vorrei tanto tornare indietro, alle sue lezioni di giornalismo duro e puro, a quelle passioni che lo accendevano per chiedergli: dai Giampaolo, raccontaci di quella volta che.
Le sue paginate erano come la formula della Coca Cola, di cui sono noti gli ingredienti ma non la chimica e da cui scaturisce il sapore inimitabile