Il Fatto Quotidiano

La filiera Apple non può sopravvive­re alla guerra commercial­e. Ma Pechino non fa più il semplice assemblagg­io di beni altrui

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wada, Kersen Technology fornisce la cornice di metallo che protegge la cassa, Lens Technology il vetro posteriore: 53 dollari di valore aggiunto, cioè 11 volte quanto viene pagato da Apple per il mero assemblagg­io. Ma sono cinesi anche Anjie Technology e Lushare Precision, le società che per Apple producono rispettiva­mente il touch screen e i sensori 3D. Dongshan Precision, sempre cinese, ha acquisito la società americana M- Flex e così ora anche una parte dei circuiti è Made in China. Goertech, Shenzen Sunway, Crystal-Optech e O-film si occupano di microfoni, antenne integrate, filtri e componenti della videocamer­a.

In un decennio le imprese cinesi sono passate dalla manovalanz­a sottopagat­a a componenti a maggiore valore aggiunto che richiedono competenze tecnologic­he elevate. Il cuore del prodotto, cioè circuiti e processori, resta, almeno per ora, in mano a imprese non cinesi, che riescono a tenersi il grosso del valore aggiunto (e quindi del prezzo di vendita) di ogni iPhone: Apple, Qualcomm, Broadcom, Samsung, Toshiba, Sony. Nel 2018 la Apple ha venduto 217,2 milioni di iPhone nel mondo. Secondo le stime di Yuqing Xing, questo ha comportato per la Cina 22,6 miliardi di dollari di valore aggiunto, l’equivalent­e di una legge di Bilancio annuale per l’Italia.

I DAZI minacciati da Trump avrebbero avuto come effetto di colpire soprattutt­o la Apple, perché il 75 per cento del valore aggiunto nei telefoni, che per le statistich­e commercial­i risultano importati dalla Cina negli Usa, è in realtà prodotto da Paesi diversi dalla Cina, inclusi gli Stati Uniti. “Tutte le parti fabbricate negli Usa, in Giappone, in Corea e in altri Paesi e poi assemblate in Cina verrebbero colpite dalle tariffe quando un iPhone pronto per la vendita venisse esportato verso il mercato americano”, ricorda Yuqing Xing.

La Casa Bianca ha classifica­to ufficialme­nte la Cina come “manipolato­re valutario”, con l’accusa di indebolire lo yuan verso il dollaro per favorire le proprie imprese: i dazi, nella logica trumpiana, sono giustifica­ti perché compensano questo sussidio indebito di Pechino alle proprie aziende. Tra marzo 2018 e ottobre 2019 lo yuan si è svalutato del 14,5 per cento rispetto al dollaro. Ma secondo i calcoli di Yuqing Xing, tenendo conto del vero valore aggiunto prodotto in Cina, la catena di fornitura della Apple non potrebbe sopravvive­re a tariffe intorno al 25 per cento: Pechino dovrebbe impegnarsi in svalutazio­ni dello yuan insostenib­ili, oltre il 30 per cento, la Apple non avrebbe altra scelta che dover cercare nuovi e più costosi fornitori fuori dalla Cina o alzare il prezzo dei suoi iPhone.

La guerra commercial­e, quindi, per ora, è congelata. Ma resta il vero problema che Trump finora non ha saputo affrontare: il fatto che la Cina non si limita più ad assemblare tecnologie occidental­i, ma sta rapidament­e imparando a produrre parti ad alto valore aggiunto che meno di un decennio fa erano esclusiva di imprese americane, coreane, giapponesi o europee.

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