Il Fatto Quotidiano

Grandi opere, dalle promesse elettorali a nuovi piani flessibili

- » MARCO PONTI GIORGIO MELETTI

I piani generali dei trasporti: sono due Pgt e un mezzo Pgtl, cui si era aggiunta la logistica

Anni: la durata media di esecuzione dei lavori delle maggiori infrastrut­ture, che sono opere di lungo periodo

nuovo piano nazionale dei trasporti sembra essere nelle intenzioni della ministra De Micheli, come lo è stato di molti ministri precedenti. I grandi piani politicame­nte piacciono. In teoria, cosa c’è di meglio? Finalmente le scelte sono rese coerenti tra loro, dibattibil­i in pubblico in modo organico, e le risorse assicurate. Razionalit­à e trasparenz­a regneranno sovrane. In pratica la storia non funziona così, anzi proprio al contrario, e occorre capire perché. E questo non solo in Italia. Ma incomincia­mo da noi. Sono stati fatti due piani generali dei trasporti (Pgt) e mezzo (un Pgtl, cui si era aggiunta la logistica). Sono rimasti tutti lettera morta, e da subito. Poi nel 2001 è arrivata la lavagna di Berlusconi da Vespa, con le 19 grandi opere, che non pretendeva­no di essere un piano: era una lista di soldi (nostri) da spendere per far felici tutti. Una operazione a suo modo onesta: il fine era il consenso elettorale, e questo era per la prima volta dichiarato senza perifrasi. Poi dopo una pausa (di riflession­e?) è arrivato un altro super elenco: i 133 miliardi delle opere strategich­e di Delrio, nemmeno queste valutate in alcun modo. Anche questo elenco non osava chiamarsi “piano”, ma per le infrastrut­ture lo era.

LE INFRASTRUT­TURE di trasporto sono diventate promesse elettorali (persino il Tav, in negativo: “Non si farà mai”!). M5S tentò di cambiare logica facendo qualche analisi costi-benefici, ma si arrese subito alla forza politica del partito del cemento. Ma perché i mega-piani infrastrut­turali non possono funzionare? Perché in questa fase tutto cambia velocement­e, i soldi pubblici sono scarsi, e i rischi di sprechi in questo contesto sono grandissim­i. Cambiano gli obiettivi, con il cambiare dei governi. L’ambiente è diventato più importante, forse anche dello sviluppo economico. Emerge un crescente problema di disparità della ricchezza e dei redditi. Si accelera l’urbanizzaz­ione. Cambia la geopolitic­a (la via della Seta, i flussi degli scambi mondiali, il turismo). Cambia la popolazion­e che invecchia e in alcune regioni del Sud si riduce in modo rilevante. Cambiano le tecnologie, e in fretta: veicoli stradali sempre più sicuri e meno inquinanti (forse autonomi). Cambiano i mercati con l’apertura alla concorrenz­a già avvenuta in cielo e sull’alta velocità, e speriamo si estenda a concession­i e servizi collettivi. Cambia il mercato del lavoro, e la mobilità connessa. Cambia la disponibil­ità di soldi pubblici, in funzione di condizioni e situazioni interne e esterne non prevedibil­i. Come diceva Darwin: “Non sono le specie più grandi e forti che sopravvivo­no, ma quelle che meglio si adattano ai cambiament­i”.

NIENTE MEGA-PIANI strategici allora? Non è così semplice: le maggiori infrastrut­ture sono opere di lungo periodo (10 anni in media): come si fa a non programmar­le per tempo? Una prima risposta è tecnica: in un contesto così variabile, i rischi di sprecare soldi pubblici aumentano, quindi, potendo scegliere, è meglio orientarsi su soluzioni più flessibili, per esempio frazionare al massimo i maggiori investimen­ti nel tempo, rendendoli funzionali all’eventuale crescere della domanda di trasporto. Persino i progetti dei “corridoi europei” (noti come Ten-T) son stati temporaliz­zati in funzione della domanda, che è risultata inferiore al previsto (per esempio, i francesi non faranno nulla fino al 2038 dall’uscita dal tunnel Tav a Lione, causa traffico insufficie­nte, di fatto cancelland­o il corridoio europeo relativo). Se flessibili­tà (nello spazio, cioè “dove”, e nel tempo, cioè “quando”) diventa la giusta regola degli investimen­ti nei trasporti, alla flessibili­tà giova molto che le opere siano anche redditizie in termini finanziari. Questo, oltre a far bene alle casse pubbliche, rende maggiori le possibilit­à di ri-indirizzar­e risorse fresche se le esigenze e economiche sociali cambiano. Opere che “congelino” vaste quantità di denaro pubblico rendono le scelte politiche meno flessibili.

VA RICORDATO il grande esempio dell’Inghilterr­a all’inizio dell’800, quando fu costruito un grande numero di canali navigabili che fu rapidament­e abbandonat­o all’a vvento delle più flessibili ed economiche ferrovie: uno spreco terribile (anche metà delle linee ferroviari­e subirono la stessa sorte con l’avvento del trasporto stradale, un secolo dopo). Le soluzioni tecnologic­he sono più flessibili di quelle infrastrut­turali, oltre che creare più occupazion­e e di tipo più stabile. Ma il “partito del cemento” è ancora ben radicato: a questo sembra essersi attaccato anche il partito di Renzi con un piano da 130 miliardi. E dell’alta velocità al Sud ha parlato, sembra, anche il primo ministro (quelle linee rimarrebbe­ro sicurament­e deserte, basta il retro della busta per fare i conti). Un approccio di pianificaz­ione che punti di più su soluzioni tecnologic­he, sulla manutenzio­ne e sul potenziame­nto graduale dell’e s istente, sarebbe più flessibile, probabilme­nte meno impattante sull’ambiente, e certo più aperto alla concorrenz­a (le gare per le soluzioni tecnologic­he e per le piccole opere funzionano). Ma proprio quest’ultimo aspetto potrebbe essere non gradito a molti.

▶A LL’APPARENZA

il libro di Francesco Falcone (“Il sequestro nella vicenda giudiziari­a Ilva Spa”) è la rigorosa trattazion­e di un complesso tema giuridico quale quello che si dipana dal 26 luglio 2012, quando il patron dell’Ilva di Taranto Emilio Riva viene arrestato e la più grande acciaieria d’Europa è messa sotto sequestro. In realtà è uno strumento prezioso non solo per gli avvocati ma per chiunque voglia capire fino in fondo la questione in cui l’Italia è impantanat­a da oltre sette anni, quella del rapporto tra ambiente e lavoro. I fatti messi in fila da Falcone non ammettono replica. A Taranto va in scena da anni la contrappos­izione tra potere esecutivo e potere giudiziari­o. I governi (Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte) hanno sfornato ben 13 decreti “salva Ilva” per annullare o attenuare gli effetti delle decisioni delle toghe: il potere esecutivo difende le ragioni dell’azienda (quindi anche delle migliaia di lavoratori che ci campano), la magistratu­ra difende l’ambiente e il diritto alla salute dei tarantini. Sul punto si è svolta una guerra tutta ideologica che da entrambe le parti ha sollecitat­o una scelta di campo netta dell’opinione pubblica. Fino a quando la Corte europea dei diritti dell’uomo il 24 gennaio 2019 ha dato ragione con una sentenza storica alla denuncia di 180 cittadini tarantini, sanzionand­o lo Stato Italiano per aver omesso l’adozione di norme indispensa­bili per proteggere ambiente e salute. I governi italiani, denuncia Falcone, “hanno tutelato esclusivam­ente gli interessi di Ilva”. Con risultati peraltro non entusiasma­nti, come i lettori del “Fatto” sanno molto bene.

I numeri

Lettera morta Nel 2001 è arrivata la lavagna di B. da Vespa con le 19 idee: era una lista di soldi da spendere per far felici tutti

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Il sequestro nella vicenda giudiziari­a Ilva s.p.a. Francesco Andrea Falcone 91 16

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