L’addio di Simone e quel che dice a tutti sul lavoro rimasto solo
Sì, è vero, si sa da tempo, ognuno sta solo sul cuor della terra. E sì, com’è noto da tempo, si nasce e si muore da soli. E da solo, e per mano sua, è morto martedì Simone Sinigaglia, operaio veneto di 40 anni: s’è impiccato a un albero in un posto in cui amava andare a pescare. Da quel che raccontano i giornali locali l’altro ieri s’era presentato in fabbrica per il turno del pomeriggio e invece l’azienda – la Ivg Colbachini, grossa impresa del padovano che produce cavi di gomma – gli ha comunicato il licenziamento: a suo carico c’era una procedura per abuso della legge 104, nel senso che – secondo la proprietà – s’era preso un po’ troppi permessi per assistere la madre malata. Due ore dopo era morto, a sera i colleghi hanno interrotto il lavoro, ieri la fabbrica era chiusa. Ora il punto non è se il licenziamento sia “assurdo” o abnorme, come sostengono il fratello e la Cisl, ma proprio la solitudine in cui matura questa morte. Non è una solitudine individuale, è la solitudine del lavoro fondamento della Repubblica, che avvelena anche i territori che si raccontano ricchi: è la stessa che provano, soli eppure insieme, le centinaia di operai della Manital di Ivrea, quella degli 817 ex Auchan, in gran parte lombardi, che da ieri aspettano con terrore le lettere di licenziamento, e quella di altre migliaia in giro per l’Italia. Senza comunità, senza politica, senza fratellanza, senza lotta collettiva esiste solo la sconfitta individuale: si nasce e si muore da soli, è vero, perché – se è lecito violentare Céline – anche per piangere bisogna tornare tra gli uomini. Ciao Simone.