Tre anni con la Brexit Noi, da “italiani expat” a immigrati in sospeso
Due giorni al B-Day Dal sì al divorzio dall’Ue la vita degli stranieri è cambiata: c’è chi è partito, chi ha preso la cittadinanza inglese e chi vive in attesa del futuro
Fine luglio 2016. Mia figlia, 4 anni, mi chiede: “Ma perché oggi al parco un bambino ha urlato a Sophia che deve tornare al suo paese?”. Sophia di anni ne ha tre e stava parlando in bulgaro con la madre. Il bambino che l’ha aggredita, inglese, è poco più grande. È passato un mese dal 23 giugno, giorno del referendum con cui il Regno Unito ha deciso di lasciare l’Unione europea. Nelle settimane precedenti al referendum ero inquieta, come per le tante campagne elettorali italiane che ho seguito, quando mi illudevo sempre di “no” e poi Berlusconi vinceva ancora e ancora, e mi risvegliavo il mattino dopo pesta di risentimento e sgomento, chiedendomi in che diavolo di paese vivessi. Anche a Londra ero rimasta ipersensibile ai segnali, diffidente verso le rassicurazioni dei colleghi inglesi: “Non succederà niente, siamo un popolo di conservatori”.
LA NOTTE DEL VOTO ero rimasta incollata alla tv fino alle 3 del mattino, quando era ormai chiaro che aveva vinto il Leave, che quel popolo di conservatori era così conservatore da voler tornare all’impero britannico, che la scommessa sul Remaindel premier David Cameron era stato un azzardo madornale. Mia figlia si era svegliata alle 5 e avevamo fatto colazione guardando quell’alba storica dalle finestre della cucina, le porte chiuse per non svegliare mio marito, italiano anche lui: quando la Storia ti arriva addosso devi essere riposato. Nel 2016 lavorava ancora al Daily Telegraph, uno dei quotidiani del L e av e , la cuccia di Boris Johnson. Dopo pranzo mi aveva chiamato con la voce tremante dalla rabbia: al Telegraph festeggiavano a fiumi di champagne e il suo capo, figlio privilegiato dell’élite inglese, Eton/ Oxford come Boris, gli aveva detto, guardando lo staff del dipartimento tecnologia, zeppo di europei: “Don’t worry, we’ll keep you”. Non vi preoccupate, vi teniamo. Lo ricordo bene, il sorriso del paese che in poche ore diventa un ghigno. Le bandiere nazionali inglesi che spuntano alle finestre e nei taxi.
All’uscita da scuola francesi, spagnoli e italiani che parlano solo di Brexit, si consultano in capannelli vocianti: Tu resti? La mamma di I, cresciuta nella Germania dell’Est ed europeista militante, manda la figlia a scuola con la spilletta Bollocks to Brexit sulla giacca e non rivolge più la parola al papà di C, candidato dell’Ukip di Nigel Farage. Il papà di E, trader francese, disgustato, vuole tornare a Parigi, ma ammette di aver fatto milioni speculando sul Leave. Gli inglesi stanno alla larga, perché nulla li imbarazza più di una discussione politica.
L’esodo inizia dopo pochi mesi. Una coppia di amici si trasferisce ad Amsterdam al seguito della Agenzia europea del farmaco. Parecchi tornano in Italia, perché “è un casino ma almeno sai di che morte muori”. Si liberano posti nelle esclusivissime scuole francesi. Arrivano i primi schiaffi in piena faccia: a luglio 2017 il primo ministro Theresa May ci chiama “cittadini di nessun luogo”. Aumentano gli episodi di razzismo, le aggressioni fisiche e verbali. La retorica sovranista di troppi politici. Eravamo expats , diventiamo immigrati.
Dall’Italia vogliono sapere: ma voi potete restare? mancherà il cibo? Le medicine? Io mi chiedo: cosa ne sarà della Londra aperta e tollerante che ci ha accolto?
Un’amica vende la casa dei sogni: è in un quartiere gentrificato da una vasta comunità di giovani famiglie europee, che a Londra hanno anche questo ruolo, mediano fra le mille culture. Se ne sono andate tutte, sono rimasti solo ebrei ortodossi e musulmani integralisti, la sua biondissima bambina l’unica nella sua strada che non dovrà presto coprirsi i capelli. Per tre anni tutto è sospeso. Cambi lavoro? Compri casa? La risposta, sempre la stessa: “Aspetto di capire come va con Brexit”. La politica britannica si italianizza: il parlamento è bloccato, il governo incaprettato. Theresa May una figura tragicomica; il paese della razionalità e dell’humour diventa l’oggetto degli sberleffi da tutto il mondo. Da vicino è un villaggio straziato dalla divisione fra Leaverse-Remainers, in una campagna elettorale perpetua ed estrema. Quando diventa primo ministro, l’estate scorsa, Boris Johnson cerca di sbloccare l’impasse sospendendo il Parlamento, una deriva autoritaria che porta in piazza migliaia di cittadini. “Sto rivalutando i vostri politici” confessa un collega inglese.
MIO MARITO DECIDE di prendere la cittadinanza britannica. Da qualche parte abbiamo la foto ufficiale della cerimonia, la bambina radiosa per il giorno di vacanza, noi con il sorriso incerto di chi raggiunge un traguardo che non cercava. Dovrei farlo anche io, sarebbe saggio. Ma non riesco a rassegnarmi a giurare fedeltà a una regina, ad assoggettarmi alle leggi per l’immigrazione di un
Non amo Bruxelles, amo il Regno Unito e sono il primo a dire che l’Europa deve migliorare, l’obiettivo è riformarla
CAMERON (2016)
Credete di essere cittadini del mondo, ma siete solo cittadini del nulla Non capite neanche cosa significhi cittadinanza
MAY (2018)
LA RETORICA SOVRANISTA E L’ESODO
In un attimo si liberano posti nelle esclusive scuole francesi, mentre aumentano gli episodi di razzismo
paese che apre le porte solo a quelli che gli fanno comodo. Mi è pesato perfino richiedere il settled status, il permesso di restare dove prima godevo dei diritti dell’Europa unita. Ho dovuto farlo, venerdì qui si ammaina la bandiera europea. Ci aspetta un’altra alba insonne, altri anni di incertezza. Sdrammatizziamo con il lessico famigliare. Dal giorno del referendum, in casa, quando qualcuno fa uno sbaglio l’altro butta lì un semiserio davidcameron!, tutto d’un fiato. È tutto relativo, no?