CARO ZINGA, PIÙ CHE IL PD SERVONO I LETTI
Abbiamo ascoltato Nicola Zingaretti l’altra sera a Porta a Porta: tra le cose di buon senso (“Bisogna abbassare i contatti tra persone”), a un certo punto ha fatto partire la consueta raffica di nonsenseda segretario del Pd: “Paradossalmente questo virus può essere il punto di svolta… l’Europa… una grande missione… la Von der Leyen, il digitale, la green economy, il grande salto, il salto di qualità, il riscatto, la ricostruzione dell’empatia, il Pd punto di riferimento di una riaggregazione di un campo…”.
ORA, ZINGARETTI è anche presidente di Regione. L’equivalente di Fontana nel Lazio. Dell’identità del Pd, francamente, non importa più niente a nessuno da almeno 6 anni, da quando Renzi ne ha fatto il suo cortile di giochi; figuriamoci adesso, con un’emergenza nazionale e mondiale in corso. Gli operatori degli ospedali della Regione che Zingaretti governa vedono le cose sotto tutt’altra luce, secondo una scala ottica microscopica, vivendo sulla loro pelle le difficoltà e incongruenze che facciamo presenti.
Come abbiamo scritto dopo il caso di
Tor Vergata (quando un paziente poi risultato positivo ha trascorso la notte insieme ad altri pazienti del pronto soccorso), il protocollo per la gestione dei casi sospetti fa ancora riferimento al “link epidemiologico territoriale” come requisito per eseguire i tamponi. Possibile che ancora oggi, con oltre 50 positivi nel Lazio e altri focolai possibili (lo sapremo tra qualche giorno), dopo la chiusura di interi reparti e la messa in quarantena del personale negli ospedali San Giovanni, San Camillo, Sant’Andrea, Tor Vergata, Gemelli, venga chiesto al paziente con sintomi respiratori gravi se ha fatto viaggi in Cina, Iran, Sud Corea e zone rosse d’Italia? Zingaretti ha detto “c’è stato un abuso del tampone”, che va fatto solo ai soggetti sintomatici. Se questo, come spiegano i medici, può avere una logica diagnostica (si valuta che circa il 30% dei tamponi può dare falsi negativi e un esito negativo può essere rassicurante), e infatti è esattamente quel che è stato fatto, in emergenza è un criterio superato dai fatti, perché semmai si tratterà di rifare i controlli su soggetti sospetti, non di farne meno. Solo questo, insieme alle misure di contenimento, bloccherà il contagio di un virus che manda in terapia intensiva più del 10% dei malati, visto che il virus si trasmette anche da chi non ha sintomi.
Ieri l’assessore alla Sanità D’Amato ha detto di aver emanato un’ordinanza che consente agli operatori negativi e asintomatici di rientrare in servizio per evitare il collasso del sistema: ma un operatore potrebbe essersi infettato uno o due giorni fa e il suo tampone sarebbe negativo; è vero che verranno ritestati, ma nel caso quante persone avranno fatto in tempo a contagiare?
Lo Spallanzani – che è un Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico – fino a ieri era l’unico centro Covid del Lazio; ieri è stato istituito il Covid 2 Hospital nella ex clinica Columbus presso la fondazione Agostino Gemelli. Perché non trasformare gli ospedali universitari – Umberto I, Tor Vergata, Campus Bio-Medico, tutti dotati di laboratori e personale qualificato – in altrettanti centri? Se non si farà al più presto, lo Spallanzani, che ha 152 posti letto di cui 14 di rianimazione e terapia intensiva, arriverà alla saturazione. È quel che sta succedendo negli ospedali della Lombardia: aPavia i medici, pure esposti al rischio di contagio, continuano a lavorare con turni massacranti. Più malati i medici si trovano a gestire, più probabilità ci sono che restino a loro volta contagiati: la procedura di vestizione e svestizione dei dispositivi di protezione è lunga e complessa, e l’errore – per chi deve passare da un paziente all’altro per molte ore al giorno – è tanto più probabile quante più volte la si mette in atto, specie in condizioni di stress psicofisico. Perché non “esternalizzare” i tamponi da mandare poi all’Iss per la conferma?
I PAZIENTI con febbre e sintomatologia compatibile con Covid-19 devono essere separati dagli altri pazienti: è incredibile, ma questa non è ancora una prescrizione. Sono gli ospedali singoli a farlo, laddove possibile (ed è meglio farlo ora, quando ancora i numeri lo consentono). Al momento i casi di polmoniti interstiziali senza link geografico non vengono testati né isolati. È il motivo per cui ci si accorge troppo tardi, spesso post-mortem, di aver curato senza alcuna protezione pazienti positivi, come è successo al San Giovanni.
È la classe politica, accogliendo le indicazioni degli scienziati e degli operatori, che deve proteggere i medici, gli infermieri e i cittadini, e forse è un’occasione di riscatto per quella stessa classe politica che ha cavalcato allegramente, tra un “sogno europeo” e una “ricostruzione dell’empatia”, il taglio di 37 miliardi in dieci anni subito dal Sistema Sanitario Nazionale, a cui adesso ci aggrappiamo come la nostra unica salvezza.