Premio Tenco Lite tra eredi e Club: l’ultima cosa utile alla musica è una crociata
Una strada lunga e tortuosa. Questo è il percorso che ha dovuto fare una lettera inviata al Vaticano da centinaia di prigionieri di un carcere di una provincia argentina in modo che il loro Presidente nazionale prenda coscienza come effetto di un boomerang di cosa succede nel suo Paese. Francisco De Quevedo ha detto che “dove non c’è diritto, è un pericolo avere ragione”. È in queste situazioni che bisogna aguzzare l’ingegno. È quello che hanno fatto centinaia di prigionieri inviando una lettera a Papa Francesco, pregandolo di consegnarne una copia al Presidente argentino nella sua prossima visita in Vaticano e intercedere per loro chiedendo informazioni su cosa sta succedendo realmente in queste prigioni. Dicono che c’è sovraffollamento nelle carceri, abuso di custodia cautelare (6.400 casi nel 2015 e più di 10.000 nel 2019), esagerazione di capi di imputazione, mancanza di informazioni sul numero di detenuti, abuso del potere legislativo da parte della magistratura, lavoro in nero e senza standard di sicurezza, oppressione da parte di Tribunali speciali, disuguaglianza nel trattamento di amici e nemici, coercizione degli imputati costretti ad accettare processi sommari e abbreviati, negazione del principio di innocenza e dei diritti di difesa, corruzione nel sistema giudiziario e persino terrorismo statale. Tutto questo basta a dire che la maggior parte degli imputati è perseguitata da un Procuratore (protetto dal più alto Tribunale provinciale) che appare come il paladino della giustizia mentre il suo passato lo condanna per un incidente da lui causato mentre guidava sotto l’effetto di alcool – due lavoratori sono rimasti feriti –, ma il fascicolo relativo all’evento “è stato perso”. Per essere ancora più espliciti, lo stesso Procuratore ha “contattato” il titolare di un giornale locale in riferimento a un forum ( Fuero Anticorruption ) creato per combattere la sua condotta illegale e il risultato
HO LETTO DELLA POLEMICA intorno al Premio Tenco e all’associazione che lo promuove, il Direttivo del Club omonimo, che è stato accusato di perpetrare gravi “deviazioni” rispetto ai principi e alle linee guida stabiliti dal fondatore. In difesa del Direttivo sono intervenuti 150 artisti e operatori del settore, da Gianni Amelio a Renzo Arbore e Gianna Nannini. Chi ha davvero ragione tra gli eredi del cantautore e gli organizzatori?
CARA LUCIANA, le braci che covano da anni sotto il Club Tenco non hanno mai smesso di ardere, e un nuovo incendio è puntualmente scoppiato. Qualcuno confida di spegnerlo sventolando carte bollate, in una battaglia che immalinconisce. Gli eredi di Luigi esigono che il Club non si avvalori più del nome del cantautore, lamentando la mancanza di una “documentata trasparenza” per le attività dell’Associazione che gestisce il Club, nonché la presenza di “conflitti di interessi” per via degli aderenti legati al Festival di Sanremo, a etichette e management, che alimenterebbero una linea editoriale “commerciale” e speculativa, distante dalla concezione originale del Club, che era una kermesse alla buona, meravigliosamente d’élite, ai tempi del fondatore Amilcare Rambaldi. Il neopresidente del Club, Sergio Staino, si è detto “sorpreso e addolorato” dall’iniziativa della famiglia Tenco e auspica un incontro per trovare un punto d’intesa. Gli è stato prontamente risposto di voler “strumentalizzare” gli artisti che hanno firmato la lettera di solidarietà con il Direttivo del Club: tra questi, storici sodali di Rambaldi come Guccini, Conte, Vecchioni. Non se ne esce. La disputa, pur legalmente valutabile, è dannatamente anacronistica. Cambiare nome al Tenco o indirizzarne dall’esterno i progetti per il sospetto di una “distorsione di tale gesto è che in tredici anni ci sono state sette condanne e un prigioniero. Speriamo che la lettera raggiunga la sua destinazione e auspichiamo paradossalmente che la destinazione sia la giustizia divina e non quella terrena della provincia argentina.
La Meloni proponga idee, ma scientificamente provate
La cialtroneria ha un vantaggio sul nemico e su qualsiasi tipo di virus. dalla storia del cantautorato” sarebbe una iattura. Ogni altro colpo di bombarda al castello della musica italiana può farlo crollare definitivamente. Non è chiaro come e quando si uscirà dall’incubo-coronavirus, ma già ora, tra tour annullati od ottimisticamente rimandati, album impossibili da promuovere davanti ai fan e impresariati sull’orlo del crac, l’ultima cosa che serve è una crociata dietro al vessillo di Tenco. La filiera perde milioni ogni giorno, si rischia di non alzare più il volume. Sulla buona musica come sul pop da stadio. E sulle rassegne che hanno preservato la memoria del nostro tesoro culturale. Aggiornandosi ai tempi che viviamo. Anzi, che vivevamo, fino a due settimane fa.
Parla sempre dopo. È in stretto collegamento con la realtà, ma ha il segnale in differita; così in caso di catastrofe più o meno gestibile ha pronta la sua risposta. Si doveva/poteva fare di più. E dal momento che ogni evento anomalo e tremendo come questo, comporta delle scelte che richiedono dei sacrifici, il cialtrone trova terreno fertile. O forse no. Perché quando la situazione è evidentemente critica, l’attrazione per la faciloneria e il pressappochismo lasciano spazio a quel senso di sopravvivenza che ci portano a discernere le cose che veramente contano. E dunque spero che il sentimento di appartenenza che ci sta dando la forza di reagire, prevalga sui discorsi vuoti di chi, tra un aperitivo e un altro, chiede aiuti alle famiglie e alle imprese, ma non perde tempo per parlar male del nostro Stato. E forse sarà un caso che la Meloni abbia acquisito consenso, grazie magari ad una parvenza di operosità che non si limita a sparlare e basta.
Nicola Zingaretti ha sfiduciato Giuseppe Conte, ma nessuno ne parla. I fatti: l’avvocato del popolo di Foggia ha convocato per mercoledì le “parti sociali” per impostare l’azione di sostegno all’economia ed evitare crisi economiche gravissime. L’odontotecnico di Roma ha immediatamente convocato lunedì le “parti sociali” per discutere sullo stesso argomento. Perché anticipare l’incontro e farlo da solo? Evidente: perché il Pd non si fida del primo ministro o comunque perché, arrivando per primo, vuole portare al tavolo della trattativa proposte da sbandierare prima che lo facciano altri. Bell’esempio di collaborazione e coesione, le due virtù che Zingaretti predica come indispensabili per il buon lavoro.