Chelsea Manning, mollata da tutti, tenta di suicidarsi
Tentatosuicidio Graziata da Obama, è stata riarrestata: non ha voluto testimoniare al processo contro il leader di Wikileaks, che pubblicò i file segreti sul conflitto in Iraq
“Alle 12:11, al Centro di detenzione per adulti di Alexandria, un incidente ha coinvolto la detenuta Chelsea Manning. È stato gestito in modo appropriato dal personale e la signorina Manning sta bene”.
Così ieri il comunicato di Dana Lawhorne, sceriffo di Alexandria, Virginia, Stati Uniti, riesce a dare la notizia senza darla. Per capire bisogna aspettare gli avvocati di Manning: “Mercoledì scorso, Chelsea Manning ha tentato il suicidio. È stata portata in ospedale e si sta riprendendo”.
C’è un automatismo diffuso che spinge molti a inquadrare un tentativo di suicidio come una resa alla disperazione. Questo è, al contrario, un gesto estremo di coraggio e resistenza politica. Ricapitoliamo i fatti. Nel 2009, Manning si chiama Bradley ed è un giovane analista di intelligence di stanza con l’esercito Usa in Iraq. Ha accesso a documenti classificati sull’operato del governo e delle forze armate americane, circa 700mila file che nel 2010 passa a Julian Assange, che li pubblica su Wikileaks. Viene identificato, accusato di 22 capi di imputazione fra cui spionaggio e nel 2013 condannato a 35 anni di carcere da un tribunale militare. Ne trascorre 7, di cui 11 mesi in isolamento, nel carcere di Quantico, in Virginia. Anni di enorme sofferenza, con due tentativi di suicidio, entrambi nel 2016. Anni in cui combatte anche per la propria identità sessuale (soffre di disforia di genere) e i diritti delle persone trans, fino a ottenere la transizione a donna, con il nome di Chelsea.
NEL 2017, per intervento del presidente Usa Barack Obama, viene scarcerata. Ma a maggio 2019 torna in prigione, con l’accusa di “oltraggio alla corte” per il suo rifiuto di collaborare all’inchiesta di una Corte federale Usa contro Wikileaks. Alla detenzione si sommano sanzioni economiche: 1.000 dollari per ogni giorno di “mancata collaborazione”. Il 31 dicembre scorso fa un bilancio su Twitter: “Il mio ultimo decennio: 77.76% in carcere; 11.05% in isolamento; 51,23% in lotta per i diritti di genere; 100% fedele a me stessa malgrado tutto; 0.00% passi indietro”. L’udienza di oggi è appunto per riesaminare l’attuale detenzione: a Chelsea basterebbe testimoniare per tornare libera. Non lo farà.
Lo scorso mese ha ribadito il suo rifiuto, scrivendo: “Mi oppongo a questa gran giurì… perché la considero un tentativo per intimidire giornalisti ed editori, che servono un interesse pubblico cruciale. Condivido questi valori da quando ero bambino, e ho avuto molto tempo, durante gli anni di detenzione, per rifletterci. Per la maggior parte di questo tempo la mia sopravvivenza è dipesa da quei valori, dalle mie decisioni e dalla mia coscienza. Non li abbandonerò adesso”.
In sintesi, ha tentato il suicidio per non essere costretta a partecipare a una udienza che considera illegittima e “altamente soggetta ad abusi”.
MANNING È la vittima collaterale della caccia del Dipartimento della Giustizia americano a Julian Assange, che, pur in circostanze definite da osservatori indipendenti “di tortura fisica e psicologica”, prima 7 anni asilo politico nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, poi, da aprile, nel carcere londinese di Belmarsh, resiste ancora a una richiesta di estradizione che, se concessa dalla magistratura britannica, significherebbe una condanna a, probabilmente, 175 anni in una prigione americana. È Assange il most wanted, il vero obiettivo, per le ragioni che ci chiarisce una fonte vicina all’intelligence e di cui scegliamo di non rivelare l’i d e nt i tà . “Certi settori dell’Amministrazione Usa sono furiosi con Assange per quello che ha rivelato. Ma c’è un altro aspetto: a Wikileakshanno fatto seguito una serie di leak enormi, milioni di documenti. Su cui lavorano, coordinandosi, decine di giornalisti in tutto il mondo. Nessuna intelligence può fermarli. Colpire Assange significa punire un simbolo e creare un deterrente per tutti gli altri”.
È una conferma preziosa di quanto sostengono i sostenitori di Assange, dai suoi legali al relatore speciale delle Nazioni Unite per la Tortura Nils Melzer, che dopo aver esaminato in modo approfondito le accuse contro di lui ha parlato pubblicamente di pressioni politiche nel processo al fondatore di Wikileaks.
IN UNA INTERVISTArecente, ha anche chiarito perché un eventuale processo ad Assange non darebbe garanzie di rispetto dello stato di diritto: “Sarà giudicato ad Alexandria, in Virginia, da una giuria, la famigerata Espionage Court, innanzi alla quale gli Stati Uniti portano tutti i casi inerenti alla sicurezza nazionale. La scelta del luogo non è casuale, poiché i giurati vengono scelti in modo proporzionale rispetto alla popolazione locale, e ad Alexandria abitano l’85 per cento dei membri della national security community, ovvero di chi lavora nella Cia, nell’Nsa, al Dipartimento della difesa e al Dipartimento di Stato. Se si viene accusati di violazione della sicurezza nazionale dinanzi a una giuria simile, il verdetto è chiaro fin dall’inizio”.