CRISI, RICORRERE AI COMMISSARI È UNA FORZATURA
Gentile direttore, l’editoriale del prof. Marco Ponti (“La ripresa de ll ’ Italia non può passare dal cemento”, Il Fatto, 11 marzo) tocca un punto nevralgico: la tendenza carsica con cui in Italia, davanti alle difficoltà, si tendono a prospettare ricette miracolistiche più che soluzioni concrete. Per rilanciare l’economia, messa a dura prova in questi giorni drammatici, l’intenzione del governo sarebbe di nominare decine di commissari straordinari, sulla scorta, si dice, del “modello Genova”, anche se non conosciamo ancora ipotesi concrete. Il timore, però, è che si ripropongano, anche grazie al clima di emergenza dovuto alla diffusione del coronavirus, ricette fondate sulla deroga, più o meno estesa, rispetto alle norme vigenti.
SENZ’ALTRO quella di Genova era una vera emergenza, ma rifare un ponte, dal punto di vista della complessità amministrativa, non è così complicato, in particolare considerando le circostanze: non c’erano problemi di localizzazione, il progetto è stato regalato a tempo di record, le aziende sono state chiamate direttamente dal commissario, che ha disposto di poteri praticamente assoluti, e le imprese hanno potuto accordarsi fra loro. Ovvio che funzioni! Ma è ammissibile replicare senza limiti il modello Genova? I commissari possono funzionare per interventi mirati, specifici e di breve durata, se posti sotto una vigilanza esterna; ma se durano anni e dispongono di un mandato troppo ampio, diventano una patologia perché pongono seri rischi sulla tenuta della legalità. Lo si è visto nella stagione dei Grandi eventi, quando anche una visita del Papa o una manifestazione sportiva era un’occasione per nominare commissari straordinari: quel modello non ha fatto che moltiplicare sperperi e inchieste per corruzione, con milioni di euro assegnati senza gara agli amici e ai loro amici. Chi sostiene la necessità di operare in deroga per fare presto – come se non fosse altrettanto importante fare bene – ignora che la nostra legislazione già prevede norme ad hoc per situazioni di comprovata emergenza. Basterebbe ricorrere a quelle, senza usare il coronavirus come giustificazione per rinverdire un passato tutt’altro che commendevole.
Del resto basta guardare ai numeri: gli appalti medio-piccoli, che il decreto Sblocca-cantieri avrebbe dovuto sbloccare (benché quelli non lo fossero affatto) sono cresciuti nel 2019 meno della metà rispetto a tutti gli altri; mentre la legge Obiettivo, altro caso di libro dei sogni spacciato a suo tempo per panacea, dopo 15 anni ha realizzato appena l’11% delle opere previste, malgrado le procedure di emergenza consentite.
È ovvio, insomma, che il problema risiede altrove: nelle amministrazioni pubbliche, incapaci spesso di fare un buon progetto, redigere un bando preciso, dotarsi di una direzione lavori adeguata, eseguire un collaudo affidabile. Mancano tecnici di qualità, che andrebbero concentrati in un numero contenuto di strutture altamente qualificate e invece ci sono ancora 37 mila stazioni appaltanti, tra cui 4.700 Comuni con meno di 3 mila abitanti che a malapena hanno un geometra nell’Ufficio tecnico.
Per rilanciare il Paese sarebbe più lungimirante usare la flessibilità che ci consentirà l’Europa investendo massicciamente in una manutenzione diffusa dell’e s istente, nell’in for mat iz zaz io ne della progettazione pubblica e della gestione di tutte le fasi dell’appalto, nel reclutamento immediato (come si sta facendo per i medici) di un significativo numero di tecnici di elevata qualificazione.
Troppe volte ci siamo illusi che semplificare le regole o, peggio, derogare a esse, fosse una soluzione. Duraturi risultati, i diritti dei cittadini, l’imparzialità, la concorrenza tra le imprese e il rilancio della nostra economia si garantiscono solo con amministrazioni pubbliche di qualità.
AL DI LÀ DEL VIRUS
Gli interventi in emergenza, con un mandato ampio e senza vigilanza, sono patologici e pongono rischi sulla tenuta della legalità