Il Fatto Quotidiano

“Io capo-comparse a Cinecittà: 70 anni con i grandi attori”

Ha esordito nel cinema nel 1948. È lo storico capo-comparse a Cinecittà

- » ALESSANDRO FERRUCCI

C’è un filo, a volte sottile, altre sottilissi­mo, spesso quasi invisibile, che lega Satyricon a

Poveri ma belli, Cleopatra a Ricotta, Ugo Tognazzi a Totò, Anna Magnani a Claudia Cardinale, John Huston a Cinecittà, le osterie al cestino della pausa pranzo. Alberto Sordi a tutto e al contrario di tutto. Questo filo si chiama Antonio Spoletini, 83 anni da pochi giorni, fisico importante così come il carattere imperioso: alle domande non risponde subito, prima interroga (“lo conosce questo film? E questo attore?”) per capire se l’interlocut­ore è preparato e attento. Altrimenti si scoccia.

Lui è un mattone e più di Cinecittà, della fabbrica dei sogni, e dal 1948, giorno del suo esordio: da allora ha ricoperto tutti i ruoli possibili, da comparsa ad aiuto del regista, fino a gestire il “c ontor no” della pellicola stessa (generici, organizzaz­ione del set, gestione attori). E ancora oggi è sul campo (“mi piace”), tanto da diventare il protagonis­ta di un bel documentar­io, Nessun nome nei titoli di coda: al centro l’amicizia con Fellini.

Il suo esordio...

La prima volta davanti a una macchina da presa? È stato per un piccolissi­mo ruolo, e nel 1948, per un film girato nei capannoni di Goffredo Lombardo (fondatore della Tita

nus). Mi coinvolse mio fratello più grande.

La sua famiglia già lavorava nel cinema.

Noi eravamo cinque maschi, e i due, più grandi, venivano coinvolti per qualche piccola parte, delle comparsate come in Poveri ma belli: sono nella scena in cui insidiano le fidanzate di Maurizio Arena e Renato Salvatori, all’interno di uno stabilimen­to balneare sul Tevere.

Il fiume balneabile.

E lo era: noi ragazzi cresciuti a Trastevere ci andavamo normalment­e, per noi tuffarci era normale, così come era normale avere uno stabilimen­to di riferiment­o.

E lei con il cinema?

Ci ho provato per vari anni: provini, provini e ancora provini, poi all’ultimo accedeva qualcosa e saltava il ruolo importante; però all’inizio ho partecipat­o pure a I soliti i

gnoti, in teoria dovevo prendere il posto di Renato Salvatori; poi appaio in Cleopatra e lì sono stati costretti a darmi del fondotinta perché ero troppo abbronzato, volevano mandarmi via “questo è un negretto”.

Poi?

Con Jules Dassin ho partecipat­o ai provini di La legge: era in Italia perché espulso dagli Stati Uniti durante il periodo maccartist­a, con l’accusa di filo comunismo...

E...

Era andata bene, le scene provate con Claudia Cardinale funzionava­no, ma alla fine hanno cambiato la storia e l’età dei protagonis­ti, così hanno scelto Gina Lollobrigi­da e Yves Montand.

Un suo punto di riferiment­o?

Alberto Sordi. Ci siamo conosciuti nel 1960, e con lui, nel 1970, sono arrivato al ruolo di assistente alla regia per Il pre

sidente del Borgorosso Foot

ball Club, e l’ho seguito fino agli ultimi suoi lavori; lui era un grande, da lui e con lui ho capito tante sfumature della vita privata e profession­ale.

Un vero maestro...

Per Borgorosso abbiamo girato alcune scene in una casa- famiglia romagnola, tre giorni di riprese; prima di finire Alberto mi chiama: “Attenzione, a chi lavora gli vanno retribuite diecimila lire al giorno”. E io: “Va bene, do il totale al parroco, poi ci pensa lui”. “No, a loro. In mano. Vedrai cosa accadrà”.

Cosa è successo?

Ho eseguito le indicazion­i: li ho chiamati uno a uno, e ogni volta, all’improvviso, vedevo i loro sguardi mutare, e non era per i soldi, non ne avevano bisogno, erano dei benestanti, ma tutti mi esprimevan­o gratitudin­e perché si erano sentiti utili; Alberto è un po’ cambiato alla fine.

Gli ultimi film non sono capolavori.

C’era malinconia in sottofondo, come in Nestore l’ultima

corsa: la metafora del cavallo anziano era legata alla sua condizione; secondo lui nella vita potevi essere stato chiunque, ma alla fine le persone ti buttano nel cesto della mondezza.

Donnaiolo?

Si faceva i fatti propri, era riservato; mi ricordava sempre: “Diffida da chi pubblicizz­a la propria beneficenz­a: se regalano un milione faranno in modo di recuperarn­e dieci, mentre c’è chi dona senza il bisogno di gridarlo”.

Come lui.

L’ho scoperto anni dopo, nessuno immaginava nulla. Alberto era speciale.

È celebre anche per la sua fissazione rispetto al “cestino” del pranzo.

(Sorride) Fino agli ultimi anni Settanta, primi Ottanta, c’era la differenza tra generici e comparse; su 100 persone, 30 erano generici e 70 le comparse, e con un differente trattament­o; un giorno Frank Sinatra si accorge che durante la pausa pranzo c’era chi mangiava e chi no, a chi era concesso un vassoio e chi era costretto a portarselo da casa.

Quindi?

Smise di girare, prese l’elicottero direzione Appia Antica, e si chiuse nella villa dove viveva. “Torno quando mangeranno tutti”. Da allora i cestini li hanno presi pure le comparse; mentre è diverso quando si gira in un teatro di posa (come

quello di Fellini): lì si organizzan­o le cucine, altrimenti gli attori sparivano per cercare un piatto caldo, magari finivano dentro le osterie e allora la pausa non terminava più.

Quanti film ha girato?

Non tanti, dagli anni Sessanta sono dedito all’assistenza del regista...

Con chi si è trovato meglio?

Non ce n’è uno in particolar­e, con ognuno ho un ricordo, e davo del “tu” a tutti, compresi Fellini, Sordi e Monicelli; anzi proprio Alberto m’insegnò un trucchetto: “Anto’, a seconda di come ti chiamano, tu rispondi; se Agnelli ti si rivol

L’amico Welles Un giorno sono con John Huston, arriva Orson, mi dà una pacca sulla spalla. E John: ‘Conosci anche lui?’

Lì il problema quotidiano si chiamava Richard Boone, che arrivava e sbiascicav­a per quanto era ubriaco

IN “LETTERA AL KREMLINO”

Settant’anni di set Ho dato del ‘tu’ a tutti, solo con Totò e la Magnani è scattato del timore. Lei diceva in faccia la verità

ge con ‘Antonio’, allora lui è ‘Gianni’; se sei il ‘signor Spoletini’, lui diventa ‘signor Agnelli’”.

C’è un ma...

Solo con due persone non ci sono riuscito: Anna Magnani e Totò.

Come mai la Magnani?

Per me era ed è il massimo del cinema; una donna schietta, romana, una che non si nascondeva mai, e magari ti diceva in faccia “l assa perde, questo lavoro non è per te: chi ti ci ha messo?”. Insomma, con lei certi confini non era semplice passarli.

E Totò?

In lui ho riscontrat­o una bontà, un’umiltà mai vista e soprattutt­o silenziosa: aiutava quante più persone poteva, in continuazi­one, un po’ come

Mario Merola; un giorno ero sul set de Gli onorevoli, e a metà giornata arriva un signore anziano e mi consegna una poesia; vado dal principe, che mi risponde “Oramai vedo poco, non posso. Chiama Cafiero (il suo storico autista)”.

Obbedisco. Arriva, gli parla all’orecchio, Cafiero va, torna e mi consegna 10mila lire. “Dalle al signore”. Per quegli anni era una cifra molto alta.

Con chi non si è trovato o ha discusso?

Il problema è che sono sempre stato uno al quale je rode

va il sederino, e mio fratello mi ha insegnato una regola aurea: “Devi discutere solo a lavoro concluso”; l’unica persona con la quale non ho retto è Lina Wertmüller: a lei il vaffa mi è scappato durante le riprese di Mimì metallurgi­co.

Come mai?

Caratterin­o, il suo (cambia discorso). Ho lavorato con Ozptek.

Dove?

ALe fate ignoranti, e l’ho pizzicato.

In cosa?

Leggo tutti i copioni dei film dove ho partecipat­o, e mentre iniziavano le riprese, sono andato da lui: “Scusa Ferzan, ma io questo film l’ho già girato, la storia la conosco, ricorda una pellicola di Vittorio Caprioli,

Splendori e miserie di Madame Royale”. Ha sorriso.

In “Splendori e miserie” c’è Tognazzi, suo amico.

Con Ugo ho lavorato varie volte, come in R o. Go. P a. G ., film del 1963 diviso in quattro episodi e girati da Rossellini, Godard, Pasolini e Gregoretti; sul set c’era pure il figlio, Ricky, un rompipalle clamoroso, da calci nel sedere; (sorride) poi siamo diventati amici.

Quindi ha partecipat­o a produzioni straniere.

Sono stato l’assistente di John Huston per Lettera al

Kremlinoe le riprese sono durate 16 settimane...

Conosce l’inglese?

Io? Ma se a stento mi affido all’italiano; no, Huston parlava la nostra lingua. E mi mandava a prendere tutti gli attori: lì il problema quotidiano si chiamava Richard Boone, che arrivava e sbiascicav­a per quanto era ubriaco.

Sempre?

Sì, così lo trasportav­o in camerino, passava un’ora ed era un’altra persona.

Usava la cocaina.

Credo di no; comunque qualche giorno dopo parlo con Huston che mi chiede della giornata, poi all’improvviso arriva un signorone, mi dà una pacca sulla spalla e mi saluta: “Ciao Antò”. Era Orson Welles. Ci ho lavorato in Ri

cotta di Pasolini. Huston stupito: “Conosci tutti?”.

Come è andata con Pasolini?

Con i miei fratelli ho lavorato in quasi tutti i suoi film: ne Il

Vangelo secondo Matteo ho un piccolo ruolo da centurione, ed era uno che emanava fascino anche quando non te lo aspettavi, era capace di polarizzar­e l’attenzione; (atti

mo di pausa) però chi mi manca è Federico.

Intende Fellini...

Nel 1963 mi ero stancato dei troppi “no”, così avevo mollato il cinema, e trovato un impiego da facchino al mattatoio. Tre anni e mezzo. Fino a quando mio fratello mi ha chiamato per La Ragazza di

Bube , poi ho continuato con

Barbarella e Jane Fonda pro

tagonista ( si ferma, sospira velocement­e) avrei altre cose da raccontare, in quel periodo ero un bel tipo.

Love story con la Fonda?

Alcune situazioni non si possono raccontare; (altra pausa) dopoBarbar­ella è arrivato

Il segreto di Santa Vittoria, e soprattutt­o Satyricon ; da lì sono tornato definitiva­mente sui set.

Amava i film di Fellini?

In realtà, dopo la proiezione di Satyricon, fuori dal cinema Federico mi convoca da parte: “Che ne pensi?”. “Te devo

di’ la verità? Non ci ho capito nulla”. Per me lui era il regista dei Vitelloni, de La strada, lavori con un inizio e una fine, mentre Satyricon mi appariva un mosaico.

E lui?

Con calma ha iniziato a interrogar­mi scena per scena, a guidare il mio ragionamen­to, e alla fine ho capito.

Fellini timido?

No, gli mancava un po’ la famiglia, delle radici, ed era colpito dall’unione mia con i fratelli tanto da volerci tutti e cinque in Roma.

Chi sono le comparse e i generici?

Fino agli anni Ottanta si giravano 370 film all’anno, e quello della comparsa era un lavoro, sono nate famiglie, generazion­i, per non parlare dei macchinist­i, degli elettricis­ti: il cinema era la seconda industria in Italia; oggi non è più possibile, è solo un impiego saltuario e i film vengono proiettati in sale piccole e poi vanno direttamen­te in tv.

C’è grossa differenza.

Enorme, e non solo qualitativ­a, anche pratica: i capolavori di Sergio Leone erano pensati per schermi enormi, e quei metri andavano riempiti; adesso con schermi molto più piccoli c’è anche minore necessità di comparse.

E lei?

Io vado avanti. Proseguo. Il cinema è la mia vita, mi diverte e non ne posso fare a meno. @A_Ferrucci

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Su, a sinistra, Antonio Spoletini con un costume di scena; al centro, a Cinecittà, segue la preparazio­ne delle comparse; in alto, con Marcello Fonte
Una vita “ripresa” Su, a sinistra, Antonio Spoletini con un costume di scena; al centro, a Cinecittà, segue la preparazio­ne delle comparse; in alto, con Marcello Fonte
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