Arbasino, quel vagabondo che arrivava prima di noi
Con Eco nell’allegra pattuglia del Gruppo 63
C’è
un periodo della vita italiana che è stato e resterà “il periodo Arbasino”. Segni caratteristici: una visione come quella di certi fotografi che riescono a ritrarre uno spazio molto largo, con una immensa quantità di dettagli, tutti nitidi; uno spirito vagabondo, totalmente libero, saldamente agganciato allo scrupolo dei fatti.
Approfittando dell’ esodo di massa verso l’aldilà nella speranza di passare inosservato evitando funerali e commemorazioni varie, se ne è andato Alberto Arbasino. Il Coronavirus con il divieto di assembramenti gli ha pure risparmiato i festeggiamenti vogheresi per i novanta anni che si dovevano tenere in questo periodo.
SEMBRA INCREDIBILEche fosse ancora vivo un autore così sofisticato e snob in un mondo dove difficilmente un libro che non appartenga alla categoria del poliziesco può entrare in classifica e dove il titolo del suo più celebre romanzo, Fratelli d’Italia, si associa a Giorgia Meloni. In realtà Arbasino ha avuto un invecchiamento da grande vino con titoli bellissimi scritti a 80 anni e dintorni come L’ingegnere in blu( 2008) e Ritratti italiani (2014). Bastava che battesse un tasto della macchina da scrivere elettrica per essere invitato da Fazio e non si può dire che non fosse giustamente celebrato come l’ultimo mostro sacro del 900. Conosceva le insidie del percorso intellettuale, il passaggio da brillante promessa a solito stronzo a venerato maestro e non potendo per motivi anagrafici restare nella prima categoria, la migliore delle tre, è riuscito a evitare l’ultima, mantenendo la s pr ez za tu ra da solito stronzo che tanto ammirava nell’amico Gianni Agnelli. Se c’è una lezione che ci ha lasciato, è stata quella di un’ironia lucida e dissacrante. Da Un Paese senza: “Se nel mondo del rock bisogna farsi tanto e prendere tanta roba per arrivare a canzoni come quelle di Jimi Hendrix e di Janis Joplin, allora Wagner e Brahms che cosa avrebbero dovuto fare? Mettersi un Dc10 nel didietro?”. Non meno impietoso con il mito del
Giappone. Da Trans-Pacific Express: “La deprimente cerimonia del tè, che in quanto tè non è meglio di una vecchia bustina, e come cerimonia fa venir voglia di passar per sempre a quella della cioccolata, o dello champagne”. Non solo per avere scritto un articolo intitolato “La gita a Chiasso” è stato lo scrittore meno provinciale che abbiamo avuto. Del resto uno che nasce in via Mazzini a Voghera parte con molte cose da farsi perdonare e molto prima che si diffondesse la figura della casalinga, quando il capoluogo dell’Oltrepò pavese era solo la città delle tre p: “Puttane, pazzi e peperoni”.
È stato Beniamino Placido a creare l’archetipo della mediocrità italica, ma anche del buon senso popolare, inventandosi una lettera di protesta contro il linguaggio dei giornalisti politici Rai, Vespa in testa, firmata da una casalinga di Voghera. Poi Arbasino ci ha marciato molto e ha contribuito alla fama e all’infamia della poveretta.
Per non scadere nella retorica non si è mai atteggiato a genio incompreso. Anche perché è sempre stato un genio compreso. Tutt’al più ha sperimentato qualche dissapore quando era alle prime armi. Primogenito di una famiglia della ricca borghesia, enfant prodige al liceo Grattoni, inizia ascrivere esi becca una querela per avere vergato un perfido ritratto di un interno voghe reseda parvenu, quello della casa di una amica, per un periodico universitario, Coprifuoco. Viene difeso dallo zio avvocato e assolto. In fondo è rimasto per tutta la vita un goliarda di grandissimo talento ed erudizione. Uno che ha “letto tutto”. Si è ritrovato un vicino di casa e amico di famiglia come Italo Pietra, direttore del Giorno, ma a un certo punto lo ha scaricato per il Corriere: “Mi sento come Fitzgerald a Hollywood” gli avrebbe detto per lamentarsi.
Dopo avere esordito con Le piccole vacanze a 27 anni (editor Calvino) ha smesso molto presto di scrivere romanzi, capendo in anticipo che era più interessante il terreno vago e libero della commistione tra generi. A parte una fase tormentata della giovinezza in cui studiava senza convinzione Medicina nella tetra Pavia e faceva i primi difficili conti con l’omosessualità, è stato lo scrittore italiano meno lamentoso e vittimista che ci sia stato. Ha scritto con successo opere legate al boom economico non lontano dalla Vigevano della disperata trilogia di Mastronardi contro il cosiddetto “miracolo italiano”, conterraneo morto suicida.
Era un uomo timido, snob, perfezionista, il flâneur più sgobbone che esistesse, non incline alla generosità con se stesso né con gli altri, ma privo di meschinerie, triste per la perdita dei compagni di merende (“I miei amici sono diventati tutti delle fondazioni”), ma sempre battitore libero. Parlamentare con il Pri negli anni 80 ha goduto del vitalizio, la legge Bacchelli di chi è nato con il culo nel burro. Mai soldi pubblici furono spesi meglio. Di tutte le volte che l’ho intervistato solo in una si è lasciato andare. Quando ho citato alcune delle sue pagine più riuscite. Il manifesto di uno scrittore che non hai mai firmato manifesti. I meravigliosi consigli sul vestire de L’Anonimo lombardo: “Abbi calzetti scozzesi, ma bellissimi e pochissimi; il doppiopetto va bene per chi ha lo stomaco dilatato; ma le scarpe bianche ricordati che semplicemente non esistono”. La divinità dei libri si vede nei dettagli.