“Dopo denunceremo tutti”
Se ci fosse un titolo, sarebbe “sottovalutazioni del rischio e incapacità organizzativa”. Il film del contagio in Lombardia mostra molti errori e responsabilità precise. Cominciamo.
1. Gli incontri a Roma. È inizio febbraio. Il virus, arrivato dalla Germania, gira nella zona di Codogno da almeno dieci giorni. A Roma, nella sede dell’Istituto superiore di sanità, il presidente Silvio Brusaferro illustra ai vari esperti regionali i rischi del nuovo Covid-19, già da settimane in Cina. A questi vertici partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimento di anestesia-rianimazione del Policlinico di Milano, oggi a capo dell’Unità di crisi in Regione. “Prima dell’inizio dell’emergenza – spiega – abbiamo avuto tre incontri. Ogni mercoledì a Roma ci venivano illustrate le previsioni di sviluppo del virus e, fin da subito, è stato posto il problema delle terapie intensive. Era evidente che in una condizione di R con 0 superiore a 1,5 la rianimazione sarebbe andata sotto stress”. Tra il 16 e il 17 febbraio c’è un altro incontro per capire quale strumentazione acquistare. Tre giorni dopo arriva la piena. Sembra cogliere tutti impreparati, ma le evidenze erano già sotto gli occhi da giorni. L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittura riunita il 9 gennaio per la prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.
2. Prevenzione inesistente. Manca un piano pandemico regionale: sul sito, l’ultimo disponibile è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.
3. Ospedalizzazione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimento all’o s p e d a l i z za z i o n e , ma le epidemie non si vincono negli ospedali: quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificata. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimenticando la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.
4. Ospedali veicoli di contagio “accidentale”. La scelta della Regione ha trasformato i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentuale degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta ( 13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) – chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabilmente riaperto – hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti. E rischia di farlo ancora oggi, con il ricovero dei convalescenti nelle Rsa. “Poichè negli ospedali bisogna liberare posti letto, i pazienti Covid convalescenti – spiega Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo – vengono mandati in
Era
al suo ultimo anno di lavoro, poi sarebbe andata in pensione. Vincenza Amato, infettivologa, era medico dirigente dell’Ats di Bergamo, dipartimento di igiene e prevenzione sanitaria. Il coronavirus l’ha stroncata all’ospedale di Romano di Lombardia, dove era ricoverata. È una delle ultime vittime tra i camici bianchi: salite a 33, da quando è esplosa l’epidemia. Un elenco che si allunga di giorno in giorno. Così come sale, con una crescita esponenziale che non accenna a diminuire, il numero dei medici e degli infermieri infettati: 6.205 a ieri, 445 in più in un solo giorno. E, di questi, queste strutture col rischio che diventino dei focolai. Ma non sappiamo se questi pazienti abbiano ancora una carica virale. Ora siamo in guerra e combattiamo, ma quando sarà finita ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministratori in tribunale”.
5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Looltre la metà – ben 3.957 (dati aggiornati, in questo caso, al 23 marzo) – sono concentrati in Lombardia. Il che significa che oltre il 13% dei contagiati in questa regione è costituito da operatori sanitari.
DATI così drammatici spiegano anche l’asprezza di quello che è ormai uno scontro aperto: da un lato, ci sono i sindacati dei medici, digiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente – spiega il professor Massimo Galli d e l l’ospedale Sacco – che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”. Qui non nascerà mai una zona dall’altro le aziende sanitarie, le Regioni, il governo. Ora nel mirino dei primi c’è anche il presidente dell’Istituto superiore della Sanità, Silvio Brusaferro. “L’istituto da lei diretto non ci aiuta a difendere i sanitari”, gli hanno scritto nero su bianco Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao (sindacato dei medici dirigenti) e Chiara Rivetti, sua omologa in Pierossa, così come nel Bresciano. Risultato: le due province contano oggi il record dei positivi (quasi 14mila su 32.346). “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”, ha detto il prof. Andrea Crisanti, virologo del “modello Vo’”.
6. I medici inascoltati. Un medico di Bergamo – lo ha raccontato il Wall Street Journal– il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliare la costituzione di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New Enmonte. Lettera che ruota intorno all’annoso problema delle mascherine indispensabili per proteggere dal contagio, e soprattutto alle indicazioni che l’Istituto dà al ministero della Salute che emana poi le circolari.
SE FINO a non molto tempo fa infatti le disposizioni ministeriali prescrivevano come dispositivi adeguati le mascherine filtranti, dai primi di marzo è cambiato tutto. Di mezzo c’è l’articolo 34 del decreto del 2 marzo, che consente di “fare ricorso alle mascherine chirurgiche quale dispositivo idogland Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegamento di servizi alla comunità, sul territorio”. Cosa che non è stata fatta. Non si è investito sull’org ani zza zio ne degli interventi del territorio, esponendo i medici di base al contagio e puntando solo su ll’ospedalizzazione. Solo oggi, la Regione inverte la marcia, incrementando i presidi sul territorio per tracciare gli asintomatici e tenere sotto controllo i malati domiciliari. Ma cos’hanno fatto le Aziende territoriali sanitarie finora?
7. Nessuna sorveglianza epidemiologica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappa
Antonio Pesenti
“Ci siamo visti tre volte a Roma, era noto il possibile rischio per le terapie intensive”
neo a proteggere” gli operatori sanitari. Tutto nel rispetto delle linee guida dell’Oms, che però prevedono standard minimi di sicurezza, regole valide per tutto il mondo, compresi i Paesi con sistemi sanitari poco avanzati. “Ma l’Iss – protestano Rivetti e Palermo – non può applicare in Italia ciò che è stato pensato per aree flagellate da guerre o carestie. Non può prescrivere che un medico entri in un reparto Covid, per visitare pazienti trattati con ossigeno ad alti flussi, protetto solo da una maschera chirurgica”. Perché poi, de
Guerra aperta L’Anaao scrive all’Iss: “Non ci difendete” Pronte le azioni legali anche contro le Regioni