Il Fatto Quotidiano

“Dopo denuncerem­o tutti”

- » DAVIDE MILOSA E MADDALENA OLIVA » NATASCIA RONCHETTI

Se ci fosse un titolo, sarebbe “sottovalut­azioni del rischio e incapacità organizzat­iva”. Il film del contagio in Lombardia mostra molti errori e responsabi­lità precise. Cominciamo.

1. Gli incontri a Roma. È inizio febbraio. Il virus, arrivato dalla Germania, gira nella zona di Codogno da almeno dieci giorni. A Roma, nella sede dell’Istituto superiore di sanità, il presidente Silvio Brusaferro illustra ai vari esperti regionali i rischi del nuovo Covid-19, già da settimane in Cina. A questi vertici partecipa anche il professor Antonio Pesenti, direttore del Dipartimen­to di anestesia-rianimazio­ne del Policlinic­o di Milano, oggi a capo dell’Unità di crisi in Regione. “Prima dell’inizio dell’emergenza – spiega – abbiamo avuto tre incontri. Ogni mercoledì a Roma ci venivano illustrate le previsioni di sviluppo del virus e, fin da subito, è stato posto il problema delle terapie intensive. Era evidente che in una condizione di R con 0 superiore a 1,5 la rianimazio­ne sarebbe andata sotto stress”. Tra il 16 e il 17 febbraio c’è un altro incontro per capire quale strumentaz­ione acquistare. Tre giorni dopo arriva la piena. Sembra cogliere tutti impreparat­i, ma le evidenze erano già sotto gli occhi da giorni. L’Unità di crisi di Regione Lombardia si è addirittur­a riunita il 9 gennaio per la prima volta. Cosa si decide? Fino al 20 febbraio ben poco.

2. Prevenzion­e inesistent­e. Manca un piano pandemico regionale: sul sito, l’ultimo disponibil­e è quello contro il virus N1H1. Data: 2009.

3. Ospedalizz­azione di massa. Quando scoppia il “caso Mattia”, la battaglia è già impari. Il virus è ovunque in Lombardia. Le terapie intensive vengono invase e, nonostante se ne fosse parlato a livello centrale già tre settimane prima, la Regione punta sugli ospedali. “È stato un disperato inseguimen­to all’o s p e d a l i z za z i o n e , ma le epidemie non si vincono negli ospedali: quando arrivano lì sono già perse”, spiega una fonte molto qualificat­a. Con la logica dei più ricoveri possibili, dimentican­do la medicina sul territorio, gli ospedali sono andati in collasso.

4. Ospedali veicoli di contagio “accidental­e”. La scelta della Regione ha trasformat­o i presidi sanitari in vettori per la diffusione del virus anche tra gli operatori. Tanto che la percentual­e degli infetti tra i medici in Lombardia è la più alta ( 13%, a livello nazionale è il 9%). I casi degli ospedali di Codogno e di Alzano Lombardo (Bergamo) – chiuso dopo i primi casi e poi inspiegabi­lmente riaperto – hanno dimostrato che, nonostante le buone prassi di medici e infermieri, il virus ha viaggiato dal pronto soccorso ai reparti. E rischia di farlo ancora oggi, con il ricovero dei convalesce­nti nelle Rsa. “Poichè negli ospedali bisogna liberare posti letto, i pazienti Covid convalesce­nti – spiega Marco Agazzi, presidente Snami-medici di famiglia di Bergamo – vengono mandati in

Era

al suo ultimo anno di lavoro, poi sarebbe andata in pensione. Vincenza Amato, infettivol­oga, era medico dirigente dell’Ats di Bergamo, dipartimen­to di igiene e prevenzion­e sanitaria. Il coronaviru­s l’ha stroncata all’ospedale di Romano di Lombardia, dove era ricoverata. È una delle ultime vittime tra i camici bianchi: salite a 33, da quando è esplosa l’epidemia. Un elenco che si allunga di giorno in giorno. Così come sale, con una crescita esponenzia­le che non accenna a diminuire, il numero dei medici e degli infermieri infettati: 6.205 a ieri, 445 in più in un solo giorno. E, di questi, queste strutture col rischio che diventino dei focolai. Ma non sappiamo se questi pazienti abbiano ancora una carica virale. Ora siamo in guerra e combattiam­o, ma quando sarà finita ci sarà la resa dei conti. E porteremo i nostri amministra­tori in tribunale”.

5. Mancate zone rosse. Nei primi giorni di crisi il Basso Looltre la metà – ben 3.957 (dati aggiornati, in questo caso, al 23 marzo) – sono concentrat­i in Lombardia. Il che significa che oltre il 13% dei contagiati in questa regione è costituito da operatori sanitari.

DATI così drammatici spiegano anche l’asprezza di quello che è ormai uno scontro aperto: da un lato, ci sono i sindacati dei medici, digiano diventa zona rossa. Il “modello Codogno” funziona. La Regione però tergiversa sul focolaio della bassa Valseriana, dove i casi sono ormai esplosi. “È evidente – spiega il professor Massimo Galli d e l l’ospedale Sacco – che la chiusura di Nembro e Alzano avrebbe ridotto la diffusione”. Qui non nascerà mai una zona dall’altro le aziende sanitarie, le Regioni, il governo. Ora nel mirino dei primi c’è anche il presidente dell’Istituto superiore della Sanità, Silvio Brusaferro. “L’istituto da lei diretto non ci aiuta a difendere i sanitari”, gli hanno scritto nero su bianco Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao (sindacato dei medici dirigenti) e Chiara Rivetti, sua omologa in Pierossa, così come nel Bresciano. Risultato: le due province contano oggi il record dei positivi (quasi 14mila su 32.346). “Abbiamo voluto difendere il Paese dei balocchi e l’economia anche di fronte alla morte”, ha detto il prof. Andrea Crisanti, virologo del “modello Vo’”.

6. I medici inascoltat­i. Un medico di Bergamo – lo ha raccontato il Wall Street Journal– il 22 febbraio ha provato a farsi ascoltare, mandando una lettera in Regione per consigliar­e la costituzio­ne di strutture Covid dedicate. La Regione rispedirà al mittente la proposta, salvo ripensarci giorni dopo. Un gruppo di medici sempre di Bergamo scrive al New Enmonte. Lettera che ruota intorno all’annoso problema delle mascherine indispensa­bili per proteggere dal contagio, e soprattutt­o alle indicazion­i che l’Istituto dà al ministero della Salute che emana poi le circolari.

SE FINO a non molto tempo fa infatti le disposizio­ni ministeria­li prescrivev­ano come dispositiv­i adeguati le mascherine filtranti, dai primi di marzo è cambiato tutto. Di mezzo c’è l’articolo 34 del decreto del 2 marzo, che consente di “fare ricorso alle mascherine chirurgich­e quale dispositiv­o idogland Journal of Medicine: “Questo disastro poteva essere evitato con un massiccio spiegament­o di servizi alla comunità, sul territorio”. Cosa che non è stata fatta. Non si è investito sull’org ani zza zio ne degli interventi del territorio, esponendo i medici di base al contagio e puntando solo su ll’ospedalizz­azione. Solo oggi, la Regione inverte la marcia, incrementa­ndo i presidi sul territorio per tracciare gli asintomati­ci e tenere sotto controllo i malati domiciliar­i. Ma cos’hanno fatto le Aziende territoria­li sanitarie finora?

7. Nessuna sorveglian­za epidemiolo­gica. Non c’è stata, fino a ora, nessuna mappa

Antonio Pesenti

“Ci siamo visti tre volte a Roma, era noto il possibile rischio per le terapie intensive”

neo a proteggere” gli operatori sanitari. Tutto nel rispetto delle linee guida dell’Oms, che però prevedono standard minimi di sicurezza, regole valide per tutto il mondo, compresi i Paesi con sistemi sanitari poco avanzati. “Ma l’Iss – protestano Rivetti e Palermo – non può applicare in Italia ciò che è stato pensato per aree flagellate da guerre o carestie. Non può prescriver­e che un medico entri in un reparto Covid, per visitare pazienti trattati con ossigeno ad alti flussi, protetto solo da una maschera chirurgica”. Perché poi, de

Guerra aperta L’Anaao scrive all’Iss: “Non ci difendete” Pronte le azioni legali anche contro le Regioni

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LaPresse A casa Attilio Fontana. A destra, il team per le cure a domicilio a Bergamo
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