LA VIRALITÀ RESTITUITA AL CORPO FISICO
Cronache del ventesimo anno del Terzo millennio. Un’umanità ancora in pieno hangover da rivoluzione digitale, con i riflessi rallentati e le difese immunitarie abbassate, viene sorpresa da un avvento inaspettato: nessuna nascita, nessun Dio che si faccia di carne e ossa, ma un evento destinato comunque a cambiare il nostro calendario, stabilendo anche questa volta un A.C. e un D.C., un prima e un dopo coronavirus.
IL VIRUS IRROMPE sulla scena e si riappropria della viralità, sottraendone il dominio al mondo digitale. E, ironia della sorte, nel riappropriarsene ricolloca al centro della scena il corpo fisico, il grande escluso della realtà virtuale. La diffusione rapida e capillare di un contenuto virale che in brevissimo tempo si propaga in rete, del resto, altro non è che un contatto da persona a persona, semplicemente in assenza di corpo. Ma l’inattesa virulenza del morbo costringe la viralità a uscir fuori di metafora, obbligandola a rientrare nei mortiferi ranghi epidemici.
Così, da insignificante comparsa nel teatro della contemporaneità, ingombrante fardello quasi superfluo, identificato principalmente come l’elemento che rallenta la sofisticazione della sempre più mentale specie umana, il corpo rientra a gamba tesa nell’agorà contemporanea.
Fragile, esposto, danneggiabile, irrompe nel post sbronza delle specie a seppellirne le fantasie di onnipotenza, decurtandola all’improvviso di quel capitale di libertà e privilegi ormai dato per acquisito e costringendola a una reclusione domestica forzata. Ed è qui che per il corpo arriva il tempo del riscatto: costretti tra le quattro mura di casa, obbligati allo smart working( come tante volte ci saremmo augurati di poter fare, anziché doverci recare sul posto di lavoro), forzati a comunicare con l’esterno attraverso le chat, il telefono o le videochiamate, ridotti a impegnare il tempo sui social network o ad allenarci attraverso applicazioni invece che in una palestra affollata, sentiamo forte come non mai l’importanza del corpo. Il nostro e quello degli altri. Rapporti monchi di almeno tre sensi su cinque ci fanno bramare il respiro alcolico di un amico che ha bevuto troppo, il calore di una mano appoggiata sulla spalla a metà di un racconto, il sapore di un bacio, che magari non avremmo dato lo stesso, ma almeno non per cause di forza maggiore.
La realtà virtuale da libera scelta diventa scelta obbligata e improvvisamente perde tutto il suo appeal: per una sorta di nemesi, coloro che più avevano cantato le lodi di una socialità depurata da sudore, imbarazzi e promiscuità fisiche anelano a tornare a relazioni complete, in cui siano i sensi a imprimere la pellicola delle impressioni.
I CONTATTI DI CUI SI È a caccia non sono più le visualizzazioni, percepite oggi come le grate trasparenti della nostra reclusione, ma quelli fisici, vecchi fasti trascurati nei tempi di pace, atrocemente rimpianti in tempo di guerra.
È così che il virus riesce nell’impresa che le Sardine avevano abbozzato qualche mese fa, in un tempo che oggi appare preistorico: la rivincita della carne e delle ossa.
Tornare a riempire le piazze, gli spazi, ammucchiati come sardine, in una mescolanza indistinta di liquidi e secrezioni oggi appare come la più eretica e trasgressiva delle fantasie: nessuno ha mai agognato tanto profondamente di prender parte a una manifestazione, a un flash mob o a una parata quanto adesso lo desideriamo tutti. Là dove non hanno potuto la militanza e l’impegno civile, indiscutibilmente, oggi può il coronavirus.
ALTRO CHE SARDINE Nessuno ha mai agognato tanto di prender parte a una manifestazione, a un flash mob o a una parata: adesso lo desideriamo tutti