L’ALTRA INFEZIONE VIENE DA BUDAPEST
“Non ho mai sentito scienziati, veri scienziati, parlare in termini di nazionalità, mai sentito espressioni come ‘la mia nazione, la tua nazione, la tua lingua, la mia lingua, la mia o la tua dislocazione geografica’. Queste sono tutte cose estranee e davvero lontane dalla visione e dal lavoro degli scienziati”. Ho trascritto una dichiarazione del medico italiano Francesco Perrone, che il New York Times International del 3 aprile pubblica in prima pagina, indicando lo scienziato italiano come “uno dei più importanti ricercatori sul coronavirus. L’articolo è una sorta di guida agli incroci di università, laboratori e scienziati che si cercano e comunicano attraverso il mondo, da Singapore a Oxford, da Pittsburgh al Pasteur Institute di Parigi, dai campus cinesi ai laboratori inglesi, francesi, tedeschi, italiani, americani. Un tempo, avvertono gli autori, ciascun ricercatore avrebbe esibito il risultato del suo frammento di ricerca in una pubblicazione per il prestigio e la carriera dell’autore e la fama della sua università. Adesso, racconta il lungo articolo, gli scienziati cercano subito nel mondo i compagni di lotta più vicini al punto esplorato, per rafforzare insieme la ricerca e avvicinarsi a capire e a scoprire. Il tempo del “made in...” nella scienza, nei giorni e nell’incubo del coronavirus, è finito. In situazioni normali tutto ciò che il lungo articolo che ho citato (un elenco di decine e decine di casi in cui ciascuno, da ciascun angolo di ricerca scientifica del mondo, cerca di dare o avere forza nel lavoro degli altri, non importa quanto estranei e lontani), sarebbe stata raccontata come la rappresentazione della scienza che imita la politica.
OVVIAMENTE – in un mondo complesso – la politica si può fare solo insieme, unione, collaborazione, scambio. Ma ciò che sta avvenendo, benché stupefacente, ci dice che un treno blindato spinge con forza cieca contro il convoglio europeo, spinge in direzione opposta alla corsa, tenta di farlo restando sullo stesso binario, a costo di distruggere e deragliare: chiusura invece di apertura, esclusione invece di inclusione, abolizione della libertà, eliminazione della magistratura e del Parlamento, anni di carcere per gli oppositori. Il progetto è rigorosamente distruttivo, eppure, ecco il fatto strano che merita attenzione, non è legato a una riforma politica e ai tanti modi di cambiare la vita delle persone (per esempio, nel fascismo, muscoli, giovinezza e pugnali).
No, qui il progetto politico è legato direttamente alla morte. Il primo ministro ungherese Orbán, liberandosi subito di tutte le finzioni di coloro che si spostano verso il fascismo fingendo una passeggiata o, al massimo, un esercizio sportivo, ha messo in chiaro che voleva pieni poteri a causa del coronavirus. Solo il potere assoluto, ha detto ai suoi, che hanno obbedito, può sconfiggere un male che entra in tanti modi e da tutte le parti, viene certamente da fuori ed è portato certamente dagli stranieri. Orbán l’ave va detto da tempo, insieme ai suoi seguaci italiani Salvini e Meloni ( che non sembrano sentire l’imbarazzo di stare agli ordini). Aveva detto che chiudere le frontiere e fermare l’infezione dei migranti era l’unica strada in difesa della civiltà e della razza magiara (Salvini e Meloni avevano dovuto affrettarsi a correggere in fretta “razza italiana”). Per anni ci hanno ripetuto che i migranti (mai divenuti focolaio di alcuna malattia) ci avrebbero portato le sette piaghe del mondo povero, e avrebbero infettato i nostri figli a scuola, anche con la tubercolosi, al punto che molte madri ritiravano i loro bambini se c’erano bambini neri in classe e proibivano i pasti ai bambini “stranieri” se la loro famiglia non poteva pagare.
Intanto vedevamo in tv che gli “operatori”, a ogni sbarco (a volte dopo settimane di attesa in mari roventi e mari ghiacciati dei naufraghi) si accostavano ai salvati indossando mascherine chirurgiche e guanti, come adesso a Brescia e Bergamo, ma che in seguito non avremmo più trovato per i nostri connazionali infettati da nostri connazionali. Ecco il progetto di Orbán: primo, i pieni poteri sono lo strumento magico (o la santificazione del leader assoluto) che d’ora in poi può comandare alle persone, alle cose e alla natura, una sorta di evocazione inconsapevole della Bibbia, in cui Giosuè ferma il sole e Gesù ingiunge a Lazzaro di alzarsi. Secondo, la città deve essere chiusa, anche con l’uso di muri, fossati e filo spinato, affinché non ci sia scambio di medici e di medicine “straniere”.
TERZO. Quando Salvini, Meloni e Tajani si presentano ai microfoni davanti a Palazzo Chigi per raccontare da leader parlamentari che cosa non va bene con il governo, rappresentano un Parlamento che il loro amico e protettore Orbán ha abolito. Dunque, se sono veri credenti (e dicono di esserlo) non sono nessuno e parlano nel vuoto.