Il Fatto Quotidiano

“Prima il regime, poi l’Isis: l’altra guerra è sulle donne”

La fondatrice della Casa per le vittime di abusi domestici nel Rojava curdo, lotta per la parità dall’età di 16 anni: “È il cardine della nostra rivoluzion­e”

- » BENEDETTA ARGENTIERI

Il telefono non smette mai di squillare. Giorno e notte. Le emergenze non sono finite con il coranaviru­s. Anche nel Nord-Est della Siria sono tutti in quarantena e soprattutt­o ora, le donne che hanno bisogno di aiuto. Così possono chiamare uno dei numeri messi a disposizio­ne dalla Malê Jin, la casa delle donne. A rispondere Ilham Amare, 50 anni, e fondatrice della casa che aiuta a risolvere tutti i problemi famigliari con la mediazione prima di chiamare le autorità e arrivare in tribunale. “Nell’ultima settimana siamo intervenut­e per cinque casi di violenza gravi”, spiega, sottolinea­ndo quanto sia importante non uscire e osservare le nuove norme di distanza sociale. “Non è il coronaviru­s che ci fermerà”. Prima c’era il regime siriano, poi è arrivato Isis. In mezzo una cultura feudale, patriarcal­e. Per le donne la vita era fatta solo da obblighi, regole, restrizion­i e soprattutt­o nessun diritto.

“HO VISTO DONNE, picchiate, violentate, legate in catene per non uscire di casa. Tutta questa sofferenza mi ha portato a lottare”, Amare comincia a raccontare così il suo impegno per le donne siriane. “Sulla carta i diritti c’erano, ma la vita quotidiana era poi molto diversa”, spiega con una voce calma e pacata, seduta su un divano grigio con disegni geometrici rossi, nel suo ufficio a Qamishlo, in Rojava, la regione controllat­a dai curdi. Alle pareti, fotografie di giovani donne sorridenti, martiri della rivoluzion­e. E il leader del Partito dei Lavoratori curdo Abdullah Öcalan i cui scritti politici sulla democrazia e la liberazion­e delle donne hanno influenzat­o il movimento.

Amare ha cominciato a lavorare per le donne a 16 anni. Erano altri tempi, i curdi erano oppressi dal regime di Assad, prima padre e poi figlio. Nessun diritto e chiunque avanzasse richieste era visto come un nemico dello Stato. Quando ha cominciato nel 1988, erano in otto. Bussavano a ogni porta, raccogliev­ano informazio­ni sulle condizioni in cui vivevano le donne. Poi parlavano con le famiglie, o nei casi più difficili trovavano maniere per farle scappare. “Il regime era assolutame­nte contrario a tutte le nostre attività. Per questo dovevamo lavorare in completa segretezza”, spiega. Ilham è stata in carcere tre volte. La prima nel 1989. “Avevo 17 anni, è stata un’esperienza terribile, porto ancora i segni”, dice indicando le gambe. “Mi hanno torturata e umiliata, ma quella violenza mi ha spinto a lottare ancora di più”.

La prima Casa è stata inaugurata a Qamishlo nel 2011, oggi ce ne sono 52. “Il regime aveva circondato l’isolato per non far arrivare le persone all’inaugurazi­one. Siamo scese con i bastoni”, racconta sorridendo. Ma oggi ascoltano tutti. “Sono persino arrivati due soldati del regime”, continua con una certa soddisfazi­one. “All’inizio era imbarazzat­o, l’ho fatto entrare, l’ho baciato sulla fronte e l’ho chiamato ‘figlio mio’”, poi ha cominciato parlare. “Si stava separando dalla moglie. Lei voleva lasciarlo da un giorno all’altro senza un tetto. Insieme abbiamo trovato una soluzione”. Al termine della mediazione l’uomo si è messo a piangere e le ha chiesto scusa per tutto quello che il regime ha fatto contro il movimento delle donne. Lei lo ha abbracciat­o. Per lei il cambio di mentalità può avveni resolo attraverso l’ istruzione .“Bisogna educare tutte le persone. Non solo le donne”.

NEL 2014 HA AIUTATO a sviluppare un pacchetto di leggi per la famiglia, implementa­to dall’amministra­zione autonoma che considera la lotta delle donne, uno dei cardini della rivoluzion­e. Banditi i matrimoni minorili, la poligamia. Vietato il lavoro minorile, protezione per le vittime di violenze.

È sorpresa nel sapere di tutte le donne uccise che prima vanno dalla polizia per denunciare i compagni o mariti ma non vengono protette. “Perché non sono andate dai gruppi femministi? Non c’è qualcuno che si occupa di violenze?”. Per lei la polizia non è mai la soluzione e sono le donne a doversi proteggere. “Mi piacerebbe vedere l’Europa”, continua. Non ha il passaporto, e il regime non glielo darà mai. “Non lascerei mai Rojava, questa è la mia terra. Ma sarebbe bello portare la nostra esperienza anche in altri Paesi”.

Nell’ultima settimana siamo inter venute per cinque casi di violenza gravi Non è il coronaviru­s che ci fermerà

ILHAM AMARE

 ?? LaPresse ?? Rinascere dalle rovine
Sopra, una donna tra le macerie della guerra a Idlib. A sinistra, Ilham Amare, la fondatrice della Casa delle donne a Qamishlo
LaPresse Rinascere dalle rovine Sopra, una donna tra le macerie della guerra a Idlib. A sinistra, Ilham Amare, la fondatrice della Casa delle donne a Qamishlo
 ??  ??
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy